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da: Raffaello Monterosso, Ars antiqua, in Deumm, 16 voll., diretto da Alberto Basso Torino: Utet, 1983-1999, Lessico, I (1983), pp. 181-190 — Pdf
1. Dalle origini della polifonia alla Scuola di Notre-Dame | 2. La notazione modale | 3. Origine dei modi ritmici | 4. Le forme musicali | 5. La notazione transizionale | 6. Verso l'Ars nova
Già presso i teorici medievali, l'espressione Ars antiqua, in opposizione ad Ars nova, aveva assunto il carattere di un'ennesima querelle fra antichi e moderni. Nel cap. xliii del libro vii dello Speculum musicae, scritto nel terzo decennio del sec. xiv [da Jacobus Leodiensis], si discute sulla superiorità dell'una o dell'altra forma di arte: tuttavia questa superiorità è da intendersi in senso strettamente tecnico, e non coinvolge, se non molto marginalmente, un giudizio di merito artistico.
Coloro che ritenevano superiore l'Ars antiqua partivano dalla constatazione che essa si basava essenzialmente sulla perfezione dei valori metrici, ossia sulla suddivisione ternaria della longa (in 3 breves): di conseguenza, uno stile che più fa uso di perfezioni, deve necessariamente apparire maggiormente perfetto. Viceversa, l'Ars nova, in quanto prevalentemente orientata verso l'imperfezione dei valori metrici (suddivisione binaria della longa e della brevis), conseguiva risultati «subtiliores et difficiliores»: e appunto in tale maggiore complessità di struttura risiedeva secondo alcuni la superiorità dell'Ars nova.
Ma osserva il teorico «non quod difficilius est, perfectius est simpliciter; ars enim, etsi dicatur esse de difficili, est tamen de bono et utili» [ciò che è più difficile non è necessariamente più perfetto; l'arte infatti, seppur difficile dev'esser anche buona e giusta (Speculum, lib. vii, cap. xliii)].
L'interesse dei musicografi medievali è comunque prevalentemente orientato verso gli aspetti grafici della notazione; sì che l'espressione «Ars antiqua» era per i contemporanei circoscritta essenzialmente al tipo di scrittura e all'interpretazione dei rapporti proporzionali fra le note. Gli storici moderni considerano invece in primo luogo l'aspetto musicale del fenomeno, in cui la notazione è solo un elemento sussidiario, per quanto importante.
Circa i limiti cronologici formali dell'Ars antiqua, sebbene permangano ancora alcune divergenze, essa comprende lo sviluppo della polifonia dal sec. xi al 1320 ca., con particolare riguardo alla Scuola di Notre Dame (1160- 1230) con i maestri Leoninus e Perotinus, alla scuola di Francone (metà del sec. xiii) e di Petrus de Cruce (fine sec. xiii).
Le espressioni musicali monodiche, sacre e profane, del medesimo periodo sono invece convenzionalmente escluse dall'Ars antiqua, e costituiscono capitoli a sé stanti (trobadors; trouvères [= profano]; sequenze; dramma liturgico [= paraliturgico]; ecc.).
E certo che la polifonia dei sec. x e xi dovette avere una certa diffusione anche al di fuori dello stretto ambito della trattatistica: dal cap. xiii del Musica enchiriadis (Gerbert, i.165-166) risulta che la fusione di due o più cantilene in una sola, purché eseguita con moderata e concorde lentezza, quod suum est huius meli, generava un suavem concentum.
Ed è inutile ricordare quanto la pratica di far cantare un frammento di melodia gregoriana a valori lunghi e nota contro nota con altre parti abbia contribuito alla repentina scomparsa del ritmo originario delle melodie gregoriane. Bisogna poi tener presente che numerosi esempi di polifonia, dei sec. xi e xii, anche se giunti a noi in forma scarsamente decifrabile, ci attestano tuttavia l'esistenza di una struttura polifonica intermedia fra l'eccessiva semplicità delle testimonianze incluse nei trattati e l'elaborata complessità propria delle composizioni incluse nel Magnus liber organi.
Anche il ms. 130 di Chartres [ix-x sec.], perduto durante l'ultima guerra, conteneva, al fol. 50v (salvatosi perché, già precedentemente pubbl. nel voI. i della Paléographie musicale [p. 59-60 e pl. xxiii]) 5 versetti alleluiatici, forniti di doppia linea neumatica. I neumi, della famiglia normanna, sono illeggibili melodicamente: tuttavia la linea inferiore, quella della vox principalis, può essere facilmente ricostruita confrontandola con altre redazioni seriori, corredate di linee e di chiavi. Per contro, la linea superiore, quella della vox organalis, non sembra sia stata riprodotta in altri codici melodicamente interpretabili, e perciò la lettura di essa è impenetrabile. Qui però siamo in grado di stabilire, neuma per neuma, il procedere delle parti (quando una voce inferiore reca una clivis, e la superiore un pes è evidente la presenza del moto contrario, che in questi esempi ha una lieve prevalenza sugli altri moti); su questa base, potrebbe persino essere tentata, sempre in via ipotetica, una ricostruzione melodica della voce superiore, applicando per analogia gli andamenti contrappuntistici propri del tempo. Nessuna indicazione è possibile desumere circa la durata dei suoni.
Già il Mocquereau [1849-1930] si era valso del versetto Dies sanctificatus (uno dei 5 contenuti nel frammento superstite) per dimostrare, in polemica con Peter Wagner [1865-1931], l'impossibilità di far equivalere, nella tradizione manoscritta gregoriana, il punctum alla brevis e la virga alla longa; nel nostro esempio infatti, è frequentissimo che ove ricorre una virga nella voce inferiore, ci sia un punctum nella voce superiore, e viceversa, con una frequenza tale da rendere inattuabile, nemmeno a costo delle più insistenti sincopi, il procedere contrappuntistico di nota contro nota. Ma se Mocquereau ebbe certamente ragione in questo caso, sbagliò quando volle negare un significato mensurale alla forma grafica dei neumi di tutta la tradizione manoscritta indipendentemente dalla famiglia e dall'epoca del codice. È quindi da presumersi che l'esecuzione polifonica del nostro esempio si basasse sulla morositas di cui ci parlano i trattatisti: consistesse cioè di un seguito di note lunghe, tutte di pari durata o quasi.
Con il sec. xii si incontrano per la prima volta componimenti polifonici in cui la parte superiore comincia ad assumere andamenti più mossi, arricchendosi di libere ornamentazioni melismatiche. Il fatto che nella voce superiore si trovino due o più note contro una della parte inferiore, è della più grande importanza, perché, ponendo fine al criterio della equivalenza delle voci, reciprocamente interscambiabili, ci assicura che doveva esistere un sistema convenzionale per attribuire differenti valori di durata alle due parti polifoniche. Il nuovo stile è emanazione dell'Abbazia di S. Marziale di Limoges, ed è giunto a noi attraverso otto organa conservati in quattro manoscritti: i Lat. 1139, 3719, 3549 della Bibl. Nationale di Parigi, e l'Add. 36881 del British Museum [= Library]. Dei quattro, il cod. più antico è il 1139, in cui è contenuto anche il dramma liturgico noto come Sponsus. In esso, l'0rganum Jubilemus, exultemus (tropo per la Natività) sovrappone al testo due file di neumi, in notazione aquitana; ogni fila è dotata di una propria linea a secco, per l'interpretazione tonale dei suoni, mentre 'una linea a inchiostro separa i 2 ordini di neumi. La lettura melodica è facilitata, oltre che dalla linea a secco tipica della notazione aquitana, anche da lettere-chiavi che ricorrono qua e là. Nessuna indicazione ci suggerisce invece la durata dei suoni. Posto che a ogni nota della parte inferiore ne corrispondono da 1 a 15 nella parte superiore, due sono le ipotesi di lavoro degli studiosi moderni: o conferire un andamento uniforme alle note della parte inferiore, rendendo elastico il valore delle note superiori, o dare un moto costante a queste ultime, costringendo le note della parte inferiore a variare continuamente la loro durata. Badando alla prassi della più tarda Scuola di Notre-Dame, bisognerebbe ammettere che questa seconda soluzione ha maggiori probabilità, anche se la prima ipotesi condurrebbe a risultati musicalmente più soddisfacenti, per la varietà e la morbidezza che ne derivano ai melismi ornamentali. Probabilmente entrambi i procedimenti erano liberamente adoperati, nel senso che le concordanze delle due voci avvenivano sulla base di tacite convenzioni fra gli esecutori, piuttosto che sulla scorta di regole, giusta la nota testimonianza dell'Anonimo iv (Scriptorum, i.344):
Il repertorio di S. Marziale comprende inoltre organa nel vecchio stile nota contro nota. Gli esempi contenuti nel cod. del British Museum ci mostrano con quanta libertà si alternano episodi fioriti e altri d'impronta più strettamente sillabica. Anche qui, alla chiarezza inequivocabile della lettura melodica fa riscontro la totale incertezza sui valori metrici. Quando il componimento procede sillabicamente su testi ritmici, allora, in analogia alle ricostruzioni modernamente tentate per la monodia, si possono raggruppare le note, rese isocrone sulla base del tempo primo sillabico, in piedi ritmici corrispondenti alla scansione podica del verso singolo; ma quando l'episodio è melismatico, viene a mancare ogni appiglio concreto, e tutte le congetture appaiono possibili.
Alla prima metà del sec. xii appartiene un altro famoso monumento della primitiva Ars antiqua, il Codex Calixtinus, conservato a Santiago de Compostela ove fu scritto probabilmente verso il 1137, come suppose Anglés. Esso contiene 19 componimenti a 2 voci e uno a 3, il più antico del genere a noi giunto. La presenza di un tetragramma con lettere-chiavi abolisce ogni difficoltà di lettura; ma, al solito, nessun indizio ci aiuta a intuire la durata dei suoni. Il particolare interesse suscitato dal primo organum a 3 ha indotto molti studiosi moderni a tentarne la trascrizione, con risultati radicalmente differenti. Anche qui, e data l'evidente derivazione di questo ms. dalla Scuola di S. Marziale, sarebbe forse meglio, anziché voler desumere a tutti i costi un ritmo mensurale da note il cui aspetto grafico non ci illumina per nulla, estendere alle due parti vocali la scansione ritmica ricavata dalla suddivisione in piedi dei versi. Per arbitrario che possa sembrare, questo metodo ha almeno il vantaggio di una più immediata aderenza con l'espressione testuale, e non è certamente più fantastico dell'applicazione del modalismo (che verrebbe notevolmente anticipato rispetto alla comparsa ufficiale di esso a Notre Dame), o di altri tentativi, da respingere integralmente perché troppo palesemente influenzati dalle suggestioni della moderna battuta.
Negli ultimi decenni del sec. xii, la polifonia assunse un ritmo di sviluppo assai più intenso. In confronto con la scarsità dei monumenti del periodo precedente, ora la documentazione diviene abbondante; le musiche escono dal generico anonimato e sono attribuibili a personalità ben distinte di artisticreatori, acquistando, in tal modo, caratteri stilistici peculiari; inoltre, la ritmica si perfeziona, trovando il sistema per rendersi, entro certi limiti, decifrabile senza troppe difficoltà. L'Anonimo iv (Scriptorum, i.327), identificabile forse in un inglese fiorito verso il 1280, ci dà alcuni ragguagli sulle origini di questo movimento, detto comunemente Scuola di NotreDame poiché i maggiori esponenti di essa, Leonin(us) e Perotin(us), sarebbero stati maestri della cappella musicale della chiesa dedicata alla Beata Vergine Maria (Notre Dame de Paris), la cui prima pietra fu posta nel 1163.
Di Magister Leoninus, l'Anonimo dice che fu optimus organista (compositore di organa), e che compose «magnum librum organi de Gradali et Antiphonano pro servitio divino multiplicando» (Scriptorum, i.342). Questo magnus liber rimase in uso sino al tempo di Perotino Magno, «optimus discantor, et melior quam Leoninus». Egli abbreviò il magnus liber di Leoninus, componendo inoltre moltissime clausule e puncta (sezioni sostitutive). I libri di Perotino rimasero in vigore sino al tempo di maestro Roberto di Sabilone, «et a suo tempore usque in hodiernum diem, simili modo» sia pure con le modifiche apportate da Petrus [de Cruce], «notator optimus ... usque in tempus magistri Franconis primi et alterius Magistri Franconis de Colonia, qui inceperunt in suis libri aliter pro parte notare ...» [ottimo compositore ... fino al tempo del primo maestro Francone e del secondo maestro Francone di Colonia, che incominciarono a notare i loro libri indipendentemente ...] (Scriptorum, i.342).
A queste indicazioni cronologiche, l'Anonimo aggiunge un elenco alquanto particolareggiato delle composizioni scritte da Leonino e di quelle di Perotino. Poiché conosciamo, in certi casi, la data esatta in cui alcune di tali composizioni furono introdotte nei servizi liturgici e la cronologia dell'autore dei testi di altre composizioni, Yvonne Rokseth avanza l'ipotesi che Perotino abbia lavorato fra il 1190 e il 1220, e che Leonino, la cui opera fu rielaborata dal successore, abbia composto musica dal 1160 al 1190. Non sono giunti a noi né il testo originale del magnus liber di Leonino né i rifacimenti di Perotino.
Ci sono pervenuti tuttavia gli apografi, il più ampio dei quali, il Pluteo xxix/1, della Bibl. Laurenziana di Firenze, è probabilmente il più vicino, per quantità di contenuto, all'originale, stando alle descrizioni analitiche dell'anonimo. Si tratta pur sempre di una copia piuttosto tardiva, della fine del sec. xiii o dell'inizio del xiv, già posseduta da Piero dei Medici. Più antico di ca 50 anni è il Cod. 677 di Wolfenbüttel, probabilmente scritto in Scozia: il suo repettorio è meno vasto del ms. fiorentino. Alla fine del sec. xiii appartiene il Cod. 20486 (antea Hh 167) della Bibl. Nacional di Madrid: esso presenta la particolarità di trascrivere a due sole voci molte composizioni, specie motetti e conductus, che nelle altre fonti sono a tre. Il più tardo testimone è il Ms. 1206 di Wolfenbüttel (olim Helmstedt 1099).
Vi sono poi da aggiungere numerosi fonti, di minore importanza per l'esiguità delle musiche in esse contenute. Manca a tutt'oggi un'edizione critica, anche solo parziale, del repertorio musicale di Notre Dame: le trascrizioni moderne sinora pubblicate sono in genere insoddisfacenti, anche perché non hanno effettuato una collazione integrale delle varie redazioni offerte dalle fonti. Probabilmente molte delle incertezze che tuttora permangono circa l'esatta interpretazione ritmica potranno essere chiarite da uno studio comparativo delle varianti, numerose e significative, proposte dalla tradizione manoscritta.
La teoria ritmica della Scuola parigina è, subito al suo primo apparire, così complessa da far ritenere improbabile che possa essere stata creazione di una sola mente. Si ripresenta la stessa situazione del canto gregoriano, i cui primi cod. a noi giunti, della fine del ix o dell'inizio del x sec., rivelano un così elaborato grado di perfezione, da avvalorare l'ipotesi che sia andato perduto un gruppo di mss. anteriori, più rudimentali quanto al sistema grafico adottato. È probabile dunque che, durante la prima metà del sec. xii, fossero stati compiuti tentativi di esprimere in maniera inequivocabile le nuove esigenze ritmiche, le quali si vennero perfezionando un poco alla volta: Leonino stesso non utilizza al completo l'intera teoria modale, ma solo una parte di essa, mentre Perotino dimostra una assai maggiore complessità.
I simboli grafici usati dai compositori di Notre Dame furono i medesimi in uso alla loro epoca. L'antica notazione neumatica di tipo accentuativo aveva lasciato il posto, nella Francia meridionale, a una notazione staccata a neumi-punti, detta aquitana nonostante si fosse diffusa ben al di fuori dei confini geografici dell'Aquitania. Nel sec. xii, i neumi-punti aquitani si erano trasformati nella notazione quadrata, non molto dissimile da quella ancora impiegata nei moderni libri liturgici di canto sacro. Essa, tuttavia, era completamente priva di ogni indicazione circa la durata dei suoni: il problema capitale da risolvere per i musicisti di Notre Dame fu pertanto quello di conferire un significato metrico a simboli che ne erano privi.
Solo più tardi. in pieno sec. xiii, si affermò il principio che a una determinata forma grafica dovesse corrispondere un preciso valore di durata: si stabilì, a es., che il simbolo , erede della virga neumatica, equivalesse a una longa, e che il simbolo , derivato dal punctum, significasse una brevis.
Nella prima fase dell'Ars antiqua, il valore delle note semplici e delle note riunite in gruppi (ligature) era determinato solo dal modo ritmico di volta in volta impiegato. Numerosi sono i teorici che definiscono il modo: l'Anonimo iv (Scriptorum, i, 327), l'Anonimo vii (ibid., i.378), Johannes de Garlandia (ibid., i.175), lo Pseudo-Aristotele (ibid., i.251), ecc.: essi concordano nel dire che il modo, o maneries, è una determinata misura dei valori lunghi e brevi nelle note, con evidente derivazione dalla prosodia classica, il cui metro era regolato da una successione preordinata di sillabe brevi e di sillabe lunghe. Fu così teorizzata una serie di alternanze precostituite di note lunghe e brevi, espresse in formule, ciascuna delle quali prese il nome di modo.
Sul numero dei modi esiste disaccordo fra le fonti teoriche coeve: l'opinione più diffusa è che fossero 6. Le rispettive formule sono:
Il numero dei valori formanti unità ritmica era determinato dall'ordo, definito dai teorici come un raggruppamento di note prima della pausa.
Pertanto, il primo ordine del I modo comprendeva 3 note (longa + brevis + longa) più una pausa di brevis, in modo da rispettare il flusso longa-brevis; il secondo ordine del II modo era rappresentato da 5 note (brevis-longa, brevis-longa-brevis, più una pausa di longa), e così via.
È abbastanza importante stabilire subito quali valori moderni si debbano far corrispondere agli antichi simboli della longa o della brevis. Nel campo della notazione modale, meno sensibile è il contrasto fra «puristi», che vorrebbero conservare quanto più possibile i simboli grafici originali, e coloro che li sostituiscono con valori più brevi: nessuno, infatti, ha trascritto la longa modale col segno , o la brevis col , equivalente, quest'ultima, a una doppia semibreve.
Posto che l'unità di misura, nel nostro sistema musicale, si identifica generalmente con la (semiminima), e dato che la combinazione longa + brevis, formante gruppo a sé, è la più frequente unità di misura della notazione modale, la soluzione più logica appare quella di ridurre i valori da 1 a 16, in modo che il gruppo sia fatto equivalere a .
La presenza di uno o dell'altro dei 6 modi è rivelata dal raggruppamento delle ligaturae: il i modo dai gruppi 3 + 2 (seguiti da pausa).
I modo
1° ordo | | | LBL (+ pausa di B) | | | |
2° ordo | | | LBL BL (+ pausa di B) | | | |
3° ordo | | | LBL BL BL (+ pausa di B) | | | | |
Nel ii modo i gruppi sì invertono (2 + 3, eccettuato il I ordo); la successione sarà quindi di brevis-longa, e i vari ordines si alternano sempre con un numero dispari di note. La pausa vale costantemente una longa:
II modo
1° ordo | | | BLB (+ pausa di L) | | | |
2° ordo | | | BL BLB (+ pausa di L) | | | |
3° ordo | | | BL BL BLB (+ pausa di L) | | | | |
Il iii modo (longa + 2 breves) sembrerebbe presentare un raggruppamento binario, in contrasto con l'unità di misura ternaria prevalente nei 2 primi modi. In realtà, anche il iii segue il medesimo principio. Così la prima longa è considerata ternaria, e delle 2 breves seguenti, la seconda si altera, raddoppiando il suo valore. Il raggruppamento nel iii modo consta pertanto di una nota isolata più una ligatura di 3 suoni più una pausa, con valore di longa ternaria:
III modo
1° ordo | | | L BBL (+ pausa di L) | | | |
2° ordo | | | L BBL BBL (+ pausa di L) | | | | |
Il iv modo è esattamente l'opposto del iii:
IV modo
1° ordo | | | BBL L (+ pausa di L) | | | |
2° ordo | | | BBL BBL L(+ pausa di L) | | | | |
Il v modo comprende esclusivamente longae di 3: esse possono presentarsi sia isolate, sia raggruppate in ligature ternarie:
V modo
1° ordo | | | L L L (+ pausa di L) | | | |
2° ordo | | | LLL LLL (+ pausa di L) | | | | | |
Il vi modo è costituito da una successione di breves, tranne l'ultima, la quale raddoppia il suo valore. Ma se l'ultima nota permane brevis, allora il raddoppiamento di valore avviene sulla pausa. Le note sono legate a gruppi di 4 e 3:
VI modo
1° ordo | | | BBBB (+ pausa) | | | | oppure | | |
2° ordo | | | BBBB BBB (+ pausa) | | | | oppure | | |
Si sarà notato, in questi specchietti, che la forma grafica intrinseca delle note, semplici o in legatura, non ha alcuna influenza sulla durata dei suoni. Una ligatura ternaria, a es., sia che abbia forma di torculus, o di porrectus, o di scandicus, o di climaeus, ecc., può valere una longa, una brevis e una longa se appartenente al i modo; esattamente l'opposto se è del ii modo, e così via per gli altri modi.
Se in teoria tutti i 6 modi sembrano godere di pari diritti, in pratica il loro impiego è assai più limitato. Le voci superiori dei componimenti polifonici più antichi adoperano in prevalenza il i modo, seguito dal ii e dal iii; più raro l'impiego del vi. Il v, e, in minor misura, il iii sono riservati prevalentemente alla parte inferiore: mentre il iv è d'uso estremamente raro.
I 6 modi così come sono stati sin qui descritti erano chiamati perfetti, ma i teorici parlano inoltre di 6 modi imperfetti. La differenza generale fra le due categorie consiste in questo: il modo perfetto termina ciascun ordo con lo stesso valore con cui l'ordo stesso aveva avuto inizio, mentre il modo imperfetto termina con un valore differente, salvaguardando però il flusso metrico caratteristico di ogni modo ritmico. Ecco qualche esempio:
I modo
1° ordo | | | | = | | | |
2° ordo | | | | = | | | | |
II modo
1° ordo | | | | = | | | |
2° ordo | | | | = | | | | |
Indubbiamente, i modi imperfetti, come tali, appartengono più alla teoria che alla pratica, nel senso che ben raramente si incontra, nelle composizioni musicali di Notre Dame, una successione di valori disposti esattamente secondo la precettistica codificata per i modi imperfetti: evidentemente la casistica dei modi imperfetti fu aggiunta dal teorici per il desiderio, tutto medievale e scolastico, di offrire, di ogni argomento, una trattazione rigorosamente sistematica. Nella pratica, i modi imperfetti si presentano, non tanto come successione regolare di ordines, quanto come deviazioni momentanee dalle formule consuete. Del resto, nemmeno i modi perfetti, nella pratica si succedono a lungo con regolarità, ammettendo essi numerose e frequenti modificazioni, che alterano temporaneamente l'ossatura della formula convenzionale. Significativo è comunque il fatto che, almeno in sede teorica, anche l'imperfezione, intesa come raggruppamento binario di note, si affermi, subito dall'inizio, in parità di diritti col principio della perfezione.
Un punto tuttora non sufficientemente chiarito riguarda l'origine dei modi. Lo studioso che più sistematicamente ha affrontato la complessa questione è [William G.] Waite, le cui suggestive ipotesi possono così essere riassunte. L'Anonimo vii (Scriptorum, i.378) distingue due categorie di modi: recti (i, ii e vi modo) e ultra mensuram (iii, iv, v). Il modo retto è quello che adopera valori pari (1 : 2), mentre il modo ultra mensuram utilizza anche valori composti (1 : 3).
Nel De speculatione musicae (Scriptorum, i, 235) Walter Odington dice esplicitamente che «apud priores organistas» [presso i vecchi organisti] la longa valeva solo due tempi, come avviene nei metri in cui la longa vale il doppio della brevis. Solo in un secondo tempo, continua il teorico, la longa acquisì tre tempi; a somiglianza della Beatissima Trinità «quae est summa perfectio»: pertanto una longa di tre tempi è detta perfetta.
Al proposito, sarà bene chiarire subito che l'analogia fra Trinità e valore ternario ha tutta l'aria di una trovata a posteriori, messa innanzi dai teorici antichi per tentar di dare una spiegazione al più diffuso impiego della suddivisione tripla. Probo il fenomeno ebbe origine dalla natura stessa del nuovo mensuralismo. Il procedimento più semplice del mensuralismo consiste infatti nell' alternare di seguito un valore lungo e uno breve, e viceversa. Data la consuetudine di utilizzare nel tenor un numero di note minore che nelle parti superiori, il sistema più semplice per far procedere d'accordo le parti della polifonia era quello di stabilire l'equivalenza = L'andamento nella parte superiore contro nella parte inferiore avrebbe infatti creato difficoltà gravi di allineamento ritmico, mentre la suddivisione ternaria facilita enormemente il simultaneo procedere delle due impalcature polifoniche.
Anche un altro teorico, Magister Lambertus (Ps-Aristotele: Scriptorum, i.251 e segg.) ribadì che solo la longa ternana aveva diritto di chiamarsi perfetta, e sulla scorta di queste testimonianze si ribadì la credenza dell'identità fra divisione ternaria e perfezione.
Invece l'Anonimo di St. Emmeram, pubblicato da [Heinrich] Sowa, polemizza vivacemente contro una simile concezione. Egli respinge il postulato che la longa di tre tempi sia perfetta e quella di due imperfetta. Solo le semibrevi possono dirsi imperfette: ma la longa, anche solo di due tempi, «nunquam esse credimus imperfectam sed eam esse dicimus rectam longam et veram et insuper et perfectam » [non si deve credere longa imperfetta, ma si chiama retta e vera, e in più anche perfetta]. Quando la longa eccede il valore di due tempi, «ultramensurabilem appellamus». Ne consegue che i valori fondamentali sono quelli della longa (di due tempi) e della brevis (di un tempo): semibrevis e longa ternaria, le quali oltrepassano la misura per difetto o per eccesso, sono ultra mensuram.
E siccome tutti i teorici dell'opera (eccezion fatta per Magister Lambertus) insistono sulla distinzione dei modi in recti e ultra mensuram, ne consegue che i modi i e ii, come quelli che sono basati sui valori retti, devono essere stati i primi a essere adoperati. La pratica musicale conferma abbondantemente tale ipotesi, poiché i primi due modi prevalgono largamente nel repertorio della Scuola di Parigi.
Così pure sembra indubbio che sulle origini della teoria modale abbia intensamente agito l'influsso della metrica classica. In quest'ultima, come è ben noto, il piede è solo un'unità di misura, costituita da un determinato numero di tempi primi; nella realtà, la pratica della ritmica ammetteva ampie libertà di movimento: dalla sostituzione di due brevi a una lunga, o di una lunga a due brevi, conservando l'equivalenza nel numero totale dei tempi, oppure sostituendo un'unità metrica con un'altra di valore differente, purché affine quanto a flusso ritmico. In altre parole: era perfettamente possibile sostituire un dattilo (4 tempi) con un trocheo (3 soli tempi) perché entrambi i piedi avevano in comune il ductus ritmico, discendente dalla lunga alla breve. Nei modi ritmici medievali la situazione non è differente. Se in teoria ogni modo procede secondo uno schema rigidamente precostituito, nella pratica tale schema è soggetto a innumeri variazioni (particolarmente frequenti, la fractio e la extensio modi), che tolgono al sistema ogni rigidità, e che altro non sono se non la trasposizione, nella ritmica musicale medievale, di quanto la ritmica classica largamente aveva praticato.
E se è vero che solo un teorico di tarda epoca come Odington paragona modi perfetti e imperfetti, nei loro vari ordines, ai piedi della prosodia classica, ciò è dovuto assai probabilmente al fatto che la casistica di Odington è più ricca e più variata nei confronti di altri teorici, e per questo, allo scopo di facilitare un immediato e mnemonico apprendimento, egli esemplificò mediante la corrispondenza con i piedi metrici.
Anche l'Anonimo iv, certamente più antico di Odington, fa un riferimento, sia pure indeterminato, alla metrica classica (Scriptorum, i, 329: «pes perficitur in penultima, et pes primi modi in brevi terminatur, et pes secundi in longa terminatur...» [il piede si attua in penultima posizione, e il piede di primo modo termina breve, mentre quello di secondo lungo...].
Del resto, la conoscenza della prosodia classica era perdurata nel Medioevo, specialmente fra gli scrittori di cose musicali: e sarebbe abbastanza agevole indicare le vestigia di una tradizione mai interrotta nell'ambiente qualificato dei musicografi. Come si è già accennato, la regolarità degli schemi indicati dai teorici soggiace a numerose varianti, alcune puramente grafiche, altre sostanziali.
Le varianti grafiche si verificano più spesso quando due note di una ligatura sono di pari grado melodico, e non possono pertanto congiungersi insieme. Il caso è contemplato nel De musica mensurabili di Johannes de Garlandia (Scriptorum, i.181). Se la ligatura è binaria, l'unica soluzione possibile è quella di ridurla a due note isolate; ma se è tenaria, allora le eventualità sono 3: .
a) se prima e
seconda nota sono di pari grado;
b) se la seconda e
la terza nota sono di pari grado;
c) se tutte le note sono di pari
grado.
È ovvio che, comunque venga smembrata, la ligatura dovrà seguire le sorti del modo di provenienza.
Si verifica anche l'eventualità che la nota isolata [l'ultima di una ligatura ternaria] si attacchi alla ligatura che segue: [= ]
Il pari grado avviene fra secondo e terzo suono: se tale gruppo di note appartiene al i modo, sarà da interpretare come se in realtà fosse formato di 3 note più 2, allo scopo evidente di conservare la successione longa + brevis.
Di maggior importanza sono le modificazioni strutturali delle formule ritmiche proprie di ciascun modo. Il fenomeno più frequente è quello della fractio modi, in base alla quale una breve si divide in un numero variabile di valori inferiori, variamente denominati: «Quandoque dicitur semibrevis ... aliter quandoque est tertia pars brevis» [Talora (due note simili) si chiamano semibrevi ... la seconda, in tal caso, occupa la terza parte della breve] (Anonimo iv, Scriptorum, i.341).
Controverso è il numero di semibrevi in cui la breve può suddividersi: secondo l'opinione prevalente, sino a 3 nella musica vocale, e sino a 4 nella musica strumentale (Anonimo iv, Scriptorum, i.338). Anche maggiore è l'incertezza per quel che riguarda il valore di tali semibrevi. Confrontando le testimonianze di parecchi teorici, pare di poter inferire che, nell'uso più antico, la breve si divideva in semibrevi di valore uguale, mentre, nell'uso più recente, se una breve si divideva in 2 semibrevi, la prima di queste valeva 1/3 di breve, e la seconda 2/3.
Naturalmente, le semibrevi potevano essere adoperate anche al posto di una longa: in tal caso si adoperavano ligature provviste di un numero di note superiori a quello richiesto dallo schema normale. Qui diventa difficile seguire i precetti dei teorici, non solo perché, nella pratica, i casi sono spesso differenti da quelli prospettati in teoria, ma anche perché le opinioni sono talora contrastanti, e diverse da epoca a epoca.
Una delle eventualità più semplici e più ricorrenti è la doppia ligatura temaria nel I modo: . Allo scopo di far terminare l'ordo col gruppo brevis + longa, per rispettare l'assetto generale del i modo perfetto, la fractio si effettua sull'ultima nota (longa) della prima ligatura:
Di assai più incerta interpretazione sono le coniuncture, che si presentano sotto la forma del climacus, più spesso subpunctis: ossia una longa seguita da rombi discendenti. Trattandosi di una fractio di longa, Johannes de Garlandia (Scriptorum, i.103) prescrive che la nota iniziale della coniunctura conservi lo stesso valore che avrebbe avuto se fosse stata sola.
Le difficoltà aumentano quando i rombi sono più numerosi, poiché è dubbio se comprimere le note entro lo spazio di una sola longa, dando così origine a valori eccessivamente ridotti, o diluirle entro lo spazio di due longae.
Può inoltre darsi che le note romboidali non indichino vere coniuncture, ma che, a causa della comodità con cui potevano essere scritte, siano una sorta di stenografia che sta al posto di una normale ligatura. Solo la pratica assidua suggerisce al trascrittore la soluzione più probabile.
Un caso particolare di fractio è dato dalla plica, la nota ornamentale che nella polifonia medievale ha preso il posto dell'antica liquescenza gregoriana. Una longa o una brevis munite di una gamba addizionale si sdoppiano, dando origine a un secondo suono, dalla probabile esecuzione sfumata. Numerosi i teorici che ce ne ragguagliano: da Magister Lambertus (Scriptorum, i.273) a Francone (Scriptorum, i.123) a Walter Odington (Scriptorum, i.236) a Johannes de Muris (Scriptorum, ii.406) a Marchetto (Scriptorum, iii.181): tutti insistono sui rapporti di durata fra il suono principale e quello addizionale. Quest'ultimo talora sottrae metà valore al suono generatore, talora solo un terzo.
Il fenomeno opposto alla fractio prende il nome di extensio modi, e consiste nell'allungamento «extra mensuram» di un qualsiasi valore, più spesso della longa. Quando l'extensio si verifica su una nota isolata, è facilmente riconoscibile, come avviene spesso nella seguente formula di I modo: = |
Più ambigua essa risulta in una ligatura. Una figurazione come la seguente, infatti, si presta a una doppia interpretazione: . O si sopprime la seconda brevis, e allora la nota finale della prima (e della seconda) ligatura subisce l'extensio: | oppure si pratica la fractio, con risultato opposto:
Come si vede, le ambiguità sono frequentissime nella decifrazione dei simboli modali: assai spesso, l'unico appiglio è costituito dall'esame degli andamenti contrappuntistici, tenendo conto delle consonanze ammesse e di quelle vietate. Nella Scuola di Notre-Dame le voci. superiori dovrebbero trovarsi col tenor in concordanza di ottava, o di quinta, o di quarta, o di terza magg., o di terza min., o all'unisono, secondo quanto insegna l'Anonimo iv (Scriptorum, iii.356), limitatamente però alle note dispari del i modo; il che significa, supponendo una formula modale assolutamente regolare senza deviazioni di sorta, che le consonanze devono verificarsi solo nei tempi forti della moderna battuta.
In pratica, avviene spesso che le parti diano luogo a incontri assai più liberi di quelli previsti dal teorico, specie quando intervengono fenomeni di fractio e di extensio. Il trascrittore si trova così davanti a un circolo chiuso: i dubbi ritmici potrebbero essere chiariti sulla scorta delle consonanze, ma la cognizione sicura delle consonanze ammesse nell'uso pratico può derivare solo da una trascrizione ritmicamente esatta. Si spiegano in tal modo le differenze anche notevoli che si osservano nelle trascrizioni moderne di uno stesso brano in notazione modale.
La varietà morfologica dei componimenti in uso nella Scuola di Parigi è assai sensibile. I teorici dell'epoca ricorrono a classificazioni ispirate alla consueta precettistica scolastica, la quale pone sullo stesso piano ciò che concretamente esiste, e ciò che è solo puramente congetturale, in modo che il quadro risulti accuratamente simmetrico. Come primo orientamento, basterà una classificazione sommaria. Distinguiamo innanzitutto lo stile melismatico (parecchie note per ogni sillaba del testo) da quello sillabico (una nota per ogni sillaba testuale). Negli apografi del Magnus liber, le voci sono disposte una sotto l'altra, quasi come un'approssimativa partitura moderna: pertanto il testo è generalmente applicato solo a una voce, la più bassa.
Allo stile melismatico (notatio sine littera) appartengono gli organa e le clausule; allo stile sillabico il conductus, mentre il mottetto partecipa di entrambe le caratteristiche.
L'organum è il componimento più tipico della Scuola di Notre Dame. Pur non abbandonando del tutto i moti retti, limitati tuttavia a episodi brevi o brevissimi, con quinte e soprattutto quarte parallele, l'organum parigino è componimento compiuto, di vaste proporzioni, basato sull'impiego simultaneo dei moti retto, obliquo e contrario, e aperto tanto alle imitazioni libere quanto a episodi canonici severamente sviluppati.
È contraddistinto da una voce inferiore, il tenor, ridotto a poco più che semplice embrione: le rade note si susseguono a grande distanza, sì che la derivazione del tenor dal canto gregoriano risulta assai spesso incomprensibile all'ascolto. Ogni nota del tenor sopporta su di sé un gran numero di note delle parti superiori: spesso il rapporto è di 1 : 100, e oltre. È assai dubbio che tale parte fosse in realtà eseguita o dal coro o dagli strumenti, sia pure ridotta a nota di pedale, o a una sorta di ison [= bordone] bizantino. Essa verrebbe spesso a trovarsi in urto troppo stridente con le parti superiori, ed è quindi probabile che, dopo essere stata intonata in concomitanza con la sillaba del testo cui è sottoposta e aver creato un momentaneo effetto di solennità accordale, la nota del tenor fosse poi lasciata andare.
Le parti superiori sono 1, 2 o 3: ampiamente ornamentate, esse si mantengono indipendenti una dall'altra, pur rimbalzandosi continuamente gli stessi spunti melodici in un gioco serrato di imitazioni. Esse prendono il nome, dall'alto in basso, di quadruplum, triplum e duplum. Per antonomasia, duplum è detto l'organum a due voci, triplum quello a tre, e quadruplum quello a quattro.
Francone (Scriptorum, i, 132) accenna anche a un organum a cinque: «Qui autem quadruplum vel quintuplum lacere voluerit... ». Non sono rimasti tuttavia esempi di organa a cinque, i quali però, stando alla testimonianza di Francone, dovevano avere struttura analoga a quelli a quattro voci.
L'autore della Summa Musicae (già attribuita a Johannes de Muris, e che il Besseler suppone composta nel sec. xiii) adopera una terminologia differente. La polifonia, egli dice, può essere diafonia (a 2), trifonia (a 3), e tetrafonia (a 4). La diafonia si distingue in basilica e organica. È basilica quando un parte tiene una nota unica, e su di essa l'altra parte procede per intervalli di quinta e di ottava, ascendenti o discendenti. E organica quando le due parti procedono invece per moto contrario, badando però di finire in consonanza di quinta o di ottava. Altre norme sono date per la trifonia e per la tetrafonia: è a ogni modo evidente che l'autore si riferisce a una pratica piuttosto arcaica, ove era ancora ammessa una certa libertà ritmica (Gerbert, iii.239-240).
Le maggiori difficoltà di interpretazione si trovano nell'organum duplum, sia perché la parte superiore è ricca di ligature, quanto mai libere, in cui ben difficile è rintracciare, anche solo parzialmente, gli schemi dei modi ritmici consueti, sia perché viene a mancare il controllo offerto dagli incontri delle consonanze. Le note del tenor, infatti, sono così saltuarie, che si possono considerare come inesistenti.
Johannes de Garlandia (Scriptorum, i.114) formula tre brevi regole che tornano di qualche utilità nella trascrizione dell'organum duplum: 1°) ogni nota della parte superiore, che cade in consonanza col tenor, è longa; 2°) la nota che, cadendo in consonanza, viene immediatamente prima di una pausa, è longa; 3°) davanti a una pausa di longa o a una consonanza perfetta occorre una longa.
Le ambiguità ritmiche dell'organum duplum, rendendo precaria e provvisoria la trascrizione, sono di grave ostacolo a una valutazione critica di tale tipo di musiche, le quali erano forse destinate in prevalenza a esecuzioni strumentali, come si può arguire dal movimento generale, apparentemente più adatto, per l'agilità e la frammentarietà del disegno, al timbro e alla tecnica strumentale che alla voce umana, specie se corale.
L'organum triplum e il quadruplum, invece, la cui trascrizione presenta minori motivi di perplessità, pur non escludendo affatto l'intervento strumentale, sono palesemente destinati all'esecuzione corale e, per la stessa imponenza delle loro proporzioni, costituivano il momento più saliente della liturgia musicale.
Nonostante l'apparente rigidità della formula modale, tali componimenti sono, proprio dal punto di vista ritmico, straordinariamente mossi e variati, pur che il lettore moderno abbia l'accortezza di svincolare la successione dei vari ordines costituenti il modo, dalla visione, falsa e angusta, provocata dalla moderna battuta in 6/8, la quale è solo un comodo mezzo per facilitare la lettura, ma in nessun modo è atta a riprodurre, con la goffa ricorrenza dei due tempi forti simmetricamente disposti, l'elastica morbidezza del ritmo modale.
Qualcosa conosciamo anche circa il modo in cui erano eseguite queste musiche in Notre Dame. Johannes de Garlandia (Scriptorum, i.117) testimonia che i quadrupla davano, all'ascolto, l'impressione di un doppio organum duplum, soprattutto quando alle voci si univano gli strumenti. È certo dunque che, almeno in particolari solennità, intervenivano gli strumenti, come sembra confermato anche da Elia Salomon nella Scientia artis musicae, il cui cap. xxx (Gerbert, iii.57 e segg.) contiene una minuziosa precettistica sul modo di cantare la polifonia. Se ne ricava la notizia certa che gli episodi più strettamente contrappuntistici erano eseguiti solisticamente, affidando cioè a un solo cantore ogni parte dell'organum. Il coro era adoperato sia per i tenores, sia per le eventuali sezioni omofone in canto gregoriano.
La clausula si distingue facilmente dall'organum per la differente struttura che vi assume il tenor: non più costituito da poche note eccessivamente spaziate fra loro, ma formato da una successione di note a distanza assai ravvicinata. Del repertorio di Notre Dame sono giunte a noi oltre 500 clausule, di cui solo una dozzina a tre parti, le altre a due. Il tenor della clausula utilizzava un frammento di un graduale o di un alleluia in canto fermo: il testo è ridotto a una sola parola, o a una sillaba sola, come nel caso, frequentissimo, in cui si legge solo go (dal versetto «Vir-go Dei genetrix» appartenente al graduale Benedicta et venerabilis).
Le clausule, la cui invenzione l'Anonimo iv attribuisce a Perotinus, servivano a sostituire parzialmente i più estesi organa di Leoninus, costituiti da una sezione in ritmo libero e da una sezione a ritmo strettamente misurato: quest'ultima poteva essere sostituita dalla clausula, più breve e ancora meglio caratterizzata dal punto di vista ritmico-espressivo.
Nel Magnus liber sono raccolti esempi di conductus sia a una, sia a più voci (da 2 a 4). Monodico o polifonico, il conductus era sempre in stile sillabico (notatio cum littera). Di incerta etimologia (dal latino conducere, forse con riferimento al fatto che, almeno alle origini, era adoperato per accompagnare l'ingresso del sacerdote), presenta gravi incertezze anche per la trascrizione, poiché a ogni sillaba di testo corrispondono generalmente solo note isolate, mancano quasi completamente le ligature e, con esse, la possibilità di rintracciare, nel fluire della melodia, una delle sei formule modali.
Di qui i differenti metodi cui si sono attenuti gli studiosi moderni: chi si basa sul ritmo del testo, facendo corrispondere un valore lungo alla sillaba tonica e un valore breve alla sillaba atona; chi adotta una sorta di vi modo, trascrivendo le note isolate come semiminime, e riducendo i radi gruppi di note entro il valore della semiminima; altri ancora postulano l'esistenza del v modo, facendo corrispondere le note isolate a una longa ternaria, la ligatura binaria a una longa binaria più una brevis, la ternaria a tre brevis, ecc. Apel invece considera le note isolate come appartenenti a ligature, più spessò del i modo, solo apparentemente smembrate per le esigenze imposte dalla sillabazione del testo.
La lingua usata è il latino, e il contenuto è quanto mai vario: religioso, lirico, satirico, politico.
La più complessa e la più affascinante struttura morfologica dell'Ars antiqua è certo il mottetto. Incerta ne è l'etimologia: dal francese mot, con riferimento all'aggiunta di un testo completo alla parte superiore di una clausula di Perotinus, in modo che venivano a coesistere insieme un duplum sillabico e un tenor melismatico; o forse anche dal latino motus, per via degli elaborati movimenti delle parti contrappuntistiche.
Come la clausula, anche il mottetto utilizza, come tenor, un frammento di canto fermo, rielaborato secondo la ritmica modale. Del testo di tale melodia gregoriana è utilizzato solo l'incipit, o parte di esso: notevole è il fatto che i testi adoperati per le altre voci, in lingua francese o latina, cercano di mantenersi aderenti al concetto espresso dal tenor.
Il mottetto a quattro voci del fascicolo ii del Cod. di Montpellier [H 196] (f. 57v-61) ha per tenor la parola mors: il duplum reca: «Mors morsu nata», il triplum «Mors, quae stimulo» e il quadruplum «Mors a primi patris vicio».
Si tratta di un fenomeno non dissimile da quello che aveva favorito la diffusione dei tropi e delle sequenze, poiché testimonia quanto fosse radicato il desiderio di rinnovare, con testi di libera invenzione, il vetusto ceppo della tradizione.
Un'altra forma spesso citata dai teorici dell'epoca è la copula. Francone (Scriptorum, i.133) la definisce come «velox discantus ad invicem copulatus»: ossia, un contrappunto dotato di veloce andamento agogico. Essa è di due tipi: legata e non legata.
Se è legata (ossia, se in essa compaiono ligature) presenta una serie di ligature binarie, come se fosse un ii modo, dal quale tuttavia si distingue sia perché la copula inizia con una longa isolata, la quale manca invece nel ii modo, sia perché le due note delle ligature devono essere eseguite non tanto come una brevis e una longa, come nel ii modo, bensì quasi come una semibrevis e una brevis: ossia, a tempo due volte più rapido.
Se non è legata, assomiglia a un v modo, nel senso che tutte le note hanno ugual valore; tuttavia, rifiuta le ligature pur essendo rigorosamente melismatica, e le singole note hanno una durata assai minore a quella delle formule del v modo.
Walter Odington (Scriptorum, i.247-248) ripete all'incirca le stesse cose, presentando tuttavia un esempio di copula a 3 voci (contro gli esempi a due di Francone) e aggiungendo un particolare importante, ossia che la copula, legata o no, si adopera solo alla fine di un componimento. Essa assomiglia pertanto alle cadenze, in uso nello stile operistico italiano del Settecento e del primo Ottocento.
Anche Johannes de Garlandia (Scriptorum, i, 116) accenna brevemente alla copula come sinonimo di hoquetus. Quest'ultimo, più che una forma a sé stante, è una tecnica, e consiste nel ben noto procedimento di intercalare una pausa dopo ogni nota, senza riguardo alcuno per il testo sottostante, troncato spesso nei punti meno adatti: e facendo in modo che quando una parte ha una pausa, l'altra parte sottostante abbia invece una nota, e viceversa. Simile tecnica poteva essere adattata a qualsiasi componimento, preferibilmente al mottetto; e quando assumeva ampie proporzioni, sì da comprendere l'intero componimento o quasi, il termine hoquetus indicava non più la tecnica, ma il componimento stesso.
Francone (Scriptorum, i.130) ci informa che il rondellus apparteneva ai contrappunti di tipo sillabico, in cui tutte le parti avevano lo stesso testo: secondo Walter Odington, invece (Scriptorum, i.245) il rondellus poteva anche essere senza testo. Quanto alla struttura, Odington ce ne enuncia le norme: prima di tutto si scrive, in ritmo modale, una melodia, «pulchrior qui possit» e la si canta solisticamente, un cantore dopo l'altro; poi vi si aggiungono altre melodie (2 o 3) in modo che quando una parte sale, l'altra scende, e soprattutto facendo sì che la melodia primigenia fluisca in tutte le altre voci (Scriptorum, i.246-247). Si tratta in sostama di un canone, che si distingue dai canoni consueti perché manca l'imitazione iniziale: le voci cominciano simultaneamente, iniziando le imitazioni dopo un certo tempo. il più famoso componimento scritto in questa forma è Sumer is icumen in, di tarda epoca, scritto verso il 1310.
Tutti questi stili che qui sono stati brevemente esaminati possono essere indicati col termine generico e riassuntivo di discantus (cfr. Johannes de Garlandia, Scriptorum, i.106). Usato probabilmente come traduzione della parola greca diaphonia, esso servì a indicare specialmente le forme contrappuntistiche dotate di un ritmo ben preciso, ossia gli organa, le clausule, i motetti e i conductus.
Al di fuori della Scuola di Notre-Dame, i movimenti musicali dell'Ars antiqua assumono caratteristiche sempre più diverse quanto più si procede nel tempo. I modi ritmici tendono a contrarsi, di numero e di importanza, ma non cadono del tutto in disuso: anzi, i principi dell'imperfezione e dell'alterazione, che avranno larga applicazione sino al sec. xvi, derivano direttamente dalla ritmica modale (l'imperfezione è presente nel i e nel ii modo, ove la longa è binaria perché seguita e preceduta dalla brevis, e l'alterazione è presente nel iii modo, in cui la seconda delle due breves si altera, ossia raddoppia il proprio valore).
Le formule modali tendono a semplificarsi, abbandonando la rigidità insita nella successione dei vari ordines; per contro, le ligature si organizzano in sistemi sempre più elaborati, accogliendo, accanto alla successione brevis-longa («ligatura cum proprietate et cum perfectione») altre combinazioni, destinate a perdurare sino alle soglie del sec. xvi.
La semibrevis, che nel Magnus liber non era dotata di individualità propria, acquista una sua forma grafica, e il suo valore, che nelle coniuncture modali oscillava entro ampi limiti, tende a precisarsi meglio. I due valori fondamentali della brevis e della longa cominciano a differenziarsi anche dal punto di vista esteriore, assumendo la longa la forma di un punto caudato, e la brevis la forma di un punto semplice. Queste, e altre innovazioni, non sono opera di un solo riformatore, ma appaiono sporadicamente, qua e là, e in maniera tutt'altro che inequivocabile.
Ogni ms. che sta cronologicamente fra il Magnus liber e i codici in notazione franconiana partecipa insieme delle caratteristiche della notazione modale e di quella franconiana: in questa zona crepuscolare, chiamata dall'Apel 'prefranconiana' o 'di transiziorte', vecchi e nuovi procedimenti coesistono, e il trascrittore moderno si trova spesso davanti a motivi di seria perplessità, poiché i simboli adoperati possono avere significazioni diverse e contrastanti. Di qui la necessità, dinanzi a un codice del sec. xiii sicuramente estraneo alla scuola parigina, di procedere a un' analisi intrinseca di quel ms., rinunziando ad applicare con rigidità norme le precetti generali, e tenendo presente che, anche nell'interno di uno stesso ms., i medesimi simboli possono variare di significato.
Viene a mancare, inoltre, il sussidio offerto dalla disposizione delle varie parti in colonna, come si osservava nelle copie del Magnus liber; negli altri codici le singole voci sono scritte per esteso, una di seguito all'altra, e non una sopra l'altra. Date queste premesse, è chiara l'impossibilità di esporre una precettistica generale; d'altronde una discussione analitica dei procedimenti impiegati nei singoli mss. esulerebbe troppo dai limiti del presente articolo. Ci limitiamo quindi a far notare alcune delle caratteristiche più salienti e che è più facile veder applicate nei vari codici, rinviando, per maggiori particolari, alle edizioni moderne dei singoli mss., nella maggior parte dei casi corredate da esaurienti introduzioni.
La notazione modale perdura più visibilmente nella parte inferiore, nel tenor, ove si incontrano spesso ligature simili alle formule di uno dei sei modi. Le novità di maggior rilievo si osservano nelle parti superiori. Longa e brevis si distinguono pure in base alla loro forma grafica, come si è già ricordato: e anche la semibrevis, che nella notazione strettamente modale compariva solo nelle coniuncture, o in fractio modi, poi assume veste autonoma di punto romboidale.
Le pause, che nella polifonia di Notre-Dame erano scritte uniformemente come trattino verticale, ricevendo il loro valore dal modo di appartenenza, si differenziano in maniera sempre più evidente: si afferma poco alla volta il principio che la pausa ha valore diverso a seconda che occupi 1, 2 o 3 spazi del rigo.
Con il consolidarsi della semibreve come valore autonomo, e adoperato sempre più frequentemente, la riduzione dei valori nel rapporto 1 : 16 appare eccessiva: a seconda della maggiore o minore frequenza della semibrevis, può essere sufficiente la riduzione 1 : 8, facendo in tal modo corrispondere alla moderna semiminima non già la longa, ma la brevis.
Quanto ai rapporti che intercorrono fra longa, brevis e semibrevis, numerosi sono gli insegnamenti dei teorici. L'esposizione più chiara è forse quella di Magister Lambertus (Scriptorum, i.270-271); essa può essere così riassunta:
1°) longa seguita da longa è perfetta, ossia vale 3 breves [ = | | | ]
2°) una longa può essere resa imperfetta (con valore di 2 breves) da una brevis che precede («imperfectio a parte ante») o che segue («imperfectio a parte post») [ = | | oppure: = | ]
3°) una brevis fra 2 longae rende sempre imperfetta («a parte post») la longa che precede: = | | |
4°) se 2 breves sono inserite fra 2 longae, la seconda brevis si altera, a simiglianza di quanto avveniva nel iii modo: = | | | |
Col passare del tempo, il prineipoio della alterazione perde terreno a favore della imperfezione. In un brano di musica quattrocentesca, la figurazione sopra indicata avrebbe più facilmente il significato di una doppia alterazione: a parte ante e a parte post: | | |
5°) se fra 2 longae stanno 3 breves, ciascuna di esse vale un tempo: = | | | |
6°) se fra le 2 longae le breves sono 4, e dopo la prima longa c'è un tractulus (una sorta di sbarretta verticale), allora tutte le breves valgono un tempo, e l'ultima di esse rende imperfetta a parte ante la longa che segue: ' = | | | |
Ma se manca il tractulus dopo la prima longa, allora l'imperfezione avviene a parte post dopo la prima longa medesima: = | | | |
7°) se fra 2 longae le breves sono 5, le prime 4 valgono un tempo ciascuna, mentre l'ultima subisce l'alteratio, raddoppiando il proprio valore: = | | | | |
Se infine le breves sono in numero superiore a 5, può essere agevolmente applicata una delle regole precedenti.
La maggior difficoltà di interpretazione è data però dalle ligature, quando non abbiano ancora assunto la chiarezza inequivocabile che si osserva nei codici dell'età franconiana. Quasi tutte le ligature di 2 o di 3 suoni possono valere globalmente 2 o 3 tempi. Francone, nell'Ars cantus mensurabilis (Scriptorum, i, 124-125) distingue le ligature nelle 3 categorie fondamentali, a seconda che siano cum proprietate, sine proprietate o cum opposita proprietate: e la limpida esposizione franconiana è destinata a rimanere valida sino a tutta l'età rinascimentale.
Invece, nei codici o autonomi o estranei alla didattica franconiana, le ligature hanno assai spesso valore ambiguo, sì che, in mancanza di più precise indicazioni, la loro trascrizione è lasciata alla discrezione dell'interprete. Persino le ligature di 4 suoni possono valere complessivamente 2 o 3 tempi: la scelta si effettua in base ai princìpi generali di consonanza e di dissonanza già visti a proposito della notazione modale.
Tra i codici più importanti in cui è contenuta musica scritta secondo i princìpi della notazione modale di transizione, ricordiamo innanzitutto i fasc. ii-iv del ms. H 196 della Facoltà di Medicina di Montpellier, pubblicati in facsimile e in trascrizione moderna da Yvonne Rokseth [Polyphonies du xiiie siècle · Le manuscrit H 196, 4 voll, Paris 1935-1939].
Il fasc. ii contiene 17 mottetti a 4 voci, ove le 3 parti superiori hanno il testo francese; il fase. iii contiene 11 mottetti a 3, col triplum in francese e il duplum in latino, ed è seguito da un'appendice in cui si trovano 4 mottetti latini a 2 voci; nel fasc. iv sono contenuti 22 mottetti latini a 3, mentre nel v ci sono un hoquetus e 104 mottetti a 3; il vi fasc. è riservato a 75 mottetti francesi a 2 voci.
108 mottetti sono contenuti nel Cod. Ed.iv.6 di Bamberg [oggi 'Lit. 115'], pubbl. con facsimili e trascrizioni da Pierre Aubry [Cent motets duxiiie siècle, Paris 1908; R New York 1964]. A esso paleograficamente simile è il Cod. Vari 42 della Biblioteca Reale di Torino.
Nel Cod. di Las Huelgas, pubblicato con facsimili e trascrizione da Higinio Anglés [El codex musical de Las Huelgas, 3 voll., Barcelona 1931], si trovano in prevalenza mottetti latini, francesi e conductus, collazionati dall'Anglés, ove occorra, con le altre fonti. Tra i codici minori ricordiamo solo l'Add. 30091 del British Museum, ove sono contenuti 12 mottetti latini a due, prevalentemente in lode della Vergine, e 2 mottetti francesi.
Un sostanziale passo verso l'abolizione di tutto quanto rimaneva incerto e ambiguo fu compiuto da Francone, i cui scritti sono strettamente collegati con un tipo di notazione detto appunto franconiana. In essa sono chiariti ulteriormente i significati sia delle note semplici, sia delle ligature. La longa può essere di 3 specie: duplex () con valore di 6 tempi, perfecta (3 tempi) e imperfecta (2 tempi). Queste ultime 2 non sono differenziate graficamente (), ma il loro riconoscimento è agevole, solo che si tengano presenti gli insegnamenti di Magister Lambertus già riportati più sopra.
Nessuna innovazione è apportata alla brevis, che continua a essere recta (un tempo) e altera (2 tempi) secondo le modalità già stabilite dai teorici precedenti. Sostanziale invece la novità riguardante la semibreve. Essa, pur conservando unica veste grafica (), può essere maior (vale 2/3 di tempo) e minor (1/3 di tempo): la semibrevis maior costituisce pertanto una sorta di alteratio nei confronti della minor.
Ma l'esatto rapporto fra brevis e semibrevis non risultò chiarito. Nei codici scritti secondo la precettistica franconiana, la semibreve non si incontra mai da sola, ma a gruppi: si presenta così il problema della suddivisione di tali gruppi, per sapere quante semibrevi occorrono per formare una breve.
La chiarificazione dell'importantissima questione si trova in un dialogo intitolato Regulae di [Robert de Handlo, attraverso la voce di] Pierre de Viset (Scriptorum, i.383 e segg.), ove, a p. 387, è testimoniato che per merito di Petrus de Cruce, era invalso l'uso di inserire un puntino per suddividere internamente i gruppi di semibrevi. Questo puntino ha quasi le stesse funzioni della moderna stanghetta che divide le battute: se si trova dopo 2 semibrevi, vuol dire che bastano 2 semibrevi a formare il valore di una breve; se è posto dopo 5 semibrevi, significa che occorrono 5 semibrevi per equivalere a una breve. Incerto è il valore da attribuirsi alle singole semibrevi interne di ogni gruppo: prevale, tra i moderni paleografi, il principio di assegnare a ogni semibreve un valore uguale, risolvendo pertanto il gruppo in un raggruppamento di questo genere:
Le innovazioni dell'Ars nova chiariranno ulteriormente questo aspetto, assegnando a ogni semibreve una particolare frazione di valore; pertanto, applicare a codici dell'età franconiana i precetti di Philippe de Vitry appare arbitrario, o addirittura anacronistico.
Nella notazione franconiana, anche le pause assumono significato certo: se il trattino occupa un solo spazio, la pausa vale una brevis; se ne occupa 2, una longa imperfetta, e se ne occupa 3, una longa perfetta.
Quanto alle ligature, esse prendono aspetti regolari e uniformi; salvo poche differenze, la forma e il significato delle ligature franconiane rimangono in vigore anche nei secoli successivi, sino a che le ligature stesse, nel sec. xvi, scompariranno una dopo l'altra.
Quasi tutti i cod. in notazione franconiana possiedono il puntino di divisione delle semibrevi, giusta la piccola «riforma» di Petrus de Cruce. Così il fasc. vii del Cod. di Montpellier, contenente 39 mottetti francesi a 3 voci più altri 8 mottetti franco a 3, 2 mottetti latini, e 1 misto; così il fasc. viii e ultimo dello stesso codice, ove si trovano un conductus e 42 mottetti a 3 voci.
Anche il Roman de Fauvel, pubblicato da Pierre Aubry [Paris 1907], è corredato di puntini divisori; inoltre, la suddivisione binaria acquista importanza sempre maggiore, ed è facilmente riconoscibile grazie al color. Quando la suddivisione ternaria della longa lascia momentaneamente il posto alla suddivisione binaria, le note sono colorate in rosso, anziché in nero.
Al posto dell'antica alternanza di longae e di breves, subentra ora, verso la fine del xiii sec., il frazionamento della longa in melismi sempre più complessi. Francone, verso il 1250, proibiva di suddividere la brevis in più di 3 semibrevi (Scriptorum, i.122 e segg.): proibizione la quale ci dimostra che ormai l'abitudine di frazionare la brevis, in tanti valori piccoli si stava ormai diffondendo. In tal modo, è aperta la strada verso i melismi sempre più elaborati, sempre più cerebralistici, di cui l'Ars nova ama ornare le parti superiori dei propri madrigali: e ciò non tanto per dar libero sfogo alla preminenza vocale e solistica della voce superiore, quanto per una eccessiva invadenza della concezione scientifica della musica, divenuta palestra di esibizioni dottrinali più che necessità intima di espressione.
Non meno sorprendente è l'evoluzione del senso armonico. Negli organa e nei mottetti della prima metà del sec. xiii, la caratteristica più saliente nello svolgimento delle parti è che ciascuna voce ha una propria condotta indipendente, scarsamente legata al complesso delle altre. All'inizio del componimento, il duplum è posto quasi invariabilmente una quinta sopra il tenor, e il triplum un'ottava sopra il tenor; il quadruplum, quando c'è, ha più spesso la fisionomia di parte di raddoppio, anziché di voce indipendente. Le 3 voci superiori procedono con ampia libertà reciproca, non evitando certo gli urti di seconda e di settima, sotto forma di appoggiature dissonanti, e accogliendo sempre più frequentemente le consonanze di terza. Appena la simmetria del discorso musicale lo consente, il compositore ricostituisce, fra le 3 o le 4 voci, la consonanza di quarta, quinta e ottava. Verso la fine del secolo, tuttavia, le voci perdono sempre più la loro indipendenza, mescolandosi in modo da costituire sempre più spesso accordi consonanti.
Uno dei primi indizi di una sempre più chiara coscienza armonica è costituito dalla cadenza. Sulla seconda del tono, due voci si trovano in consonanza di sesta, risolvendo poi all'ottava per moto contrario, affermando chiaramente in tal modo il movimento sensibile-tonica. E i teorici distinguono espressamente le consonanze dalle dissonanze, difendendo queste ultime quando a esse succeda immediatamente una consonanza. Basterà una sola testimonianza, quella dell'Anonimo ii (Scriptorum, i, 311): «Componitur autem discantus ex consonantiis principaliter et ex dissonantiis incidentaliter, ut discantus sii per se pulchrior, et ut per ipsas magis consonantiis delectemur» [si componga però il discanto prevalentmente su consonanze e solo incidentalmente su dissonanze, perché l'armonia sia per ciò più bella e la presenza di molte consonanze ci diletti].