TSM | Cronologia | Onomastico | Glossario | Thesaurus
da: Ulrich Michels, Atlante di musica [München 1977-91], Milano 1985-91, p. 117.
II madrigale è un genere vocale polifonico italiano, che esiste
in 2 forme ben distinte:
il madrigale del xiv sec. (madrigale
trecentesco)
il madrigale del xvi / inizio xvii sec.,
diffusosi anche al di fuori dell'Italia.
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Il madrigale trecentesco fiorisce soprattutto verso la
metà del xiv sec. Sull'origine della parola
«madrigale» sono state avanzate tre ipotesi:
materialis, nel senso di profano, poiché il madr. è un
genere profano;
matricalis, cioè canto nella lingua
materna che nel madr. è l'italiano;
mandrialis, da
mandra, cioè canto di pastori dal contenuto prettamente bucolico.
L'etimologia è tuttavia incerta.
I temi trattati sono di preferenza a sfondo amoroso e erotico; le immagini poetiche scaturiscono dalla contemplazione della natura. I poeti più significativi sono Dante, Petrarca, Boccaccio, Sacchetti e Soldanieri; il linguaggio è sobrio e la forma del testo relativamente semplice: nella sua forma matura il madrigale è costituito da 2-3 strofe di 3 versi (terzetti), con ritornello di 2 versi (distico finale o coppia); i versi sono endecasillabi (raramente settenari), variamente rimati (abb, cdd ...ee oppure aba, cbc ...bb e simili). Il madr. è in origine a 2 voci; in seguito anche a 3. I terzetti hanno la medesima melodia, mentre la coppia ne ha una differente. Nei terzetti la voce superiore cantante è caratterizzatada lunghi e coloriti passi melismatici ricchi di virtuosismi, mentre il tenor ha struttura più semplice. La coppia, essenzialmente più breve, denuncia affinità di struttura con i terzetti e presenta molto spesso ritmi ternari di danza.
Dalla caccia deriva, nella seconda metà del xiv sec., il madrigale canonico, con 2 voci a canone oppure a 3 voci, con canone nelle 2 superiori e tenor indipendente. Ne sono autori principali Jacopo da Bologna, Giovanni da Cascia (= da Firenze), Pietro da Firenze, più tardi Francesco Landini.
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Il madrigale del XVI e XVII sec. non ha musicalmente alcun rapporto con quello trecentesco. I compositori di testi si rifanno tuttavia ai poeti madrigalistici del sec. XIV, in particolare Petrarca e Boccaccio. Il madr. diviene la controparte profana del motetto e assume una connotazione artistica ed espressiva con riflessi anche manieristici: un'arte per il conoscitore e l'amatore (musica reservata). L'esecuzione è solistica, anche se non è escluso l'accompagnamento strum. IL testo è generalmente a rime libere; poeti prediletti sono Pietro Bembo, Ariosto, Tasso ecc.
La musica si organizza in funzione del testo in una serie di brevi sezioni, destinate soprattutto a valorizzare determinati passaggi o parole. Grazie a questa libertà formale il madr. nel XVI sec. diviene una sorta di laboratorio per la nuova musica.
Il madrigale all'inizio del '500 (prima ed. a stampa: Roma 1530) è ancora semplice, con struttura alternativamente omofona o polifonica, per lo più a 4 v. con la voce superiore predominante e procedente in forma di bicinium (coloriture timbriche, intensa vivacità ritmica).
La fioritura del madrigale avviene tra il 1550 e il 1580. In questo periodo il madrigale è a 5 v. (anche 6); le enfatizzazioni del testo si fanno più frequenti attraverso inusitate locuzioni ritmiche, armoniche e cromatiche (madrigalismi). I maggiori compositori sono, agli inizi, Verdelot, Festa, Arcadelt, poi Willaert, De Rore, Lasso, Palestrina, De Monte, A. Gabrieli.
Nel madrigale della fine del Cinquecento (fino al 1620) l'arte espressiva e il virtuosismo raggiungono il vertice soprattutto nell'opera di Gesualdo, Marenzio, Monteverdi. Con il V Libro dei Madrigali di Monteverdi (1605) si affermano il madrigale solistico con accompagnamento di b.c. e il madrigale concertante, che annunciano un nuovo stile.
Il madrigale italiano del XVI sec. apparve verso il 1530 nel circolo di Pietro Bembo (1470-1547, cardinale dal 1539), alla ricerca di un'arte più raffinata di quella rappresentata dalla frottola, dallo strambotto ecc. Ci si rivolse soprattutto alla lingua ricca di immagini e sentimenti di Petrarca (petrarchismo) e ai suoi madrigali. Dal punto di vista mus. non c'è alcun rapporto con il madrigale del Trecento. I contenuti del nuovo genere, caratterizzato da una poesia d'amore altamente stilizzata, riflettevano il nuovo culto della donna e le tendenze manieristiche del tempo, ma ben presto si aprirono anche a temi satirici, umoristici ecc. I nuovi testi madrigalistici potevano avere diverse forme, anche rigorose (p. es. sonetto); la loro struttura è però per lo più a rime libere, così come libero era il numero dei versi (6-16), con preferenza per settenari e endecasillabi. Dal punto di vista mus. si traspose nel madrigale la tecnica compositiva del motetto fiammingo: organizzazione del testo in sezioni, imitazione motivica, episodi omofonici, realizzazione espressiva del testo. Il madrigale diventa così la controparte profana del motetto. Appartiene al mondo della cosiddetta musica reservata, cioè quella musica riservata ai conoscitori, destinata al tempo stesso all'aristo crazia e agli ambienti colti della città, che ave vano interesse e accesso a quest'arte.
Madonna per voi ardo
et voi non mel credete
perché non pìa quanto bella sete
Ogn'ora miro e guardo
se tanta crudeltà cangiar volete
Donna non v'accorgete
che per voi moro et ardo
e per mirar vostra beltà infinita
e voi sola servir bramo la vita
Il bianco e dolce cigno
cantando more,
et io piangendo
giungo
al fin del viver mio.
Strano e diversa sorte
ch'ei more sconsolato,
et io moro
beato.
Morte, che nel morire
mi empie di gioia tutto e di desire.
Se nel morir altro dolor non sento
di mille morte il dì sarei
contento.
Mia benigna fortuna e ’l viver lieto,
i chiari giorni et le tranquille notti
e i soavi sospiri e ’l dolce stile
che solea resonare in versi e ’n rime,
vòlti subitamente in doglia e ’n pianto,
odiar vita mi fanno, et bramar morte.
Crudel, acerba, inexorabil Morte,
cagion mi dài di mai non esser lieto,
ma di menar tutta mia vita in pianto,
e i giorni oscuri et le dogliose notti.
I mei gravi sospir’ non vanno in rime,
e ’l mio duro martir vince ogni stile.
Tirsi morir volea,
gl'occhi mirando di colei ch'adora,
quand'ella, che di lui non men ardea,
li disse: "Oimè, ben mio,
deh, non morir ancora,
che teco bramo di morir anch'io."
Frenò Tirsi il desio
ch' hebbe di pur sua vit'alhor finire,
ma sentia mort'in non poter morire.
E mentre'l guardo suo fisso tenea
ne' begl'occhi divini
e'l nettare amoroso indi bevea,
la bella Ninfa sua, che gia vicini
sentia i messi d' Amore,
disse con occhi languidi e tremanti:
"Mori, cor mio, ch' io moro."
Cui rispose il Pastore:
"Et io, mia vita, moro."
Così moriro i fortunati amanti
di morte sì soave e sì gradita
che, per anco morir, tornaro in vita.
Vergine bella, che di sol vestita,
coronata di stelle, al sommo
Sole
piacesti sí, che 'n te Sua luce ascose,
Amor mi spinge a dir
di te parole;
ma non so 'ncominciar senza tu' aita,
et di Colui ch'amando
in te si pose.
Invoco lei che ben sempre rispose,
chi la chiamò
con fede:
Vergine, s'a mercede
miseria extrema de l'humane
cose
già mai ti volse, al mio prego t'inchina,
soccorri a la mia
guerra,
bench'i' sia terra et tu del Ciel regina.
Zefiro torna, e'l bel tempo rimena,
e i fior'e l'herbe, sua dolce
famiglia,
e garrir Progne e pianger Filomena,
e primavera candida e
vermiglia.
Ridon i prati, e'l ciel si rasserena;
Giove s'allegra di mirar
sua figlia;
l'aria e l'acqua e la terra è d'amor piena;
ogn'animal
d'amar si riconsiglia.
Ma per me, lasso, tornano i piú gravi
sospiri, che dei cor
profondo tragge
quella ch'al ciel se ne portò le chiavi;
e cantar
augelletti, e fiorir piagge,
e 'n belle donne honeste atti soavi
sono un
deserto, e fere aspre e selvagge.
Salutate il nuovo aprile, o di Pindo arpe canore! Esce in cielo il nuovo albore a bandir I'anno senile. II pastor d'Anfiso e di Delo d'aurea pelle mostrasi adorno: gia si vede, errando nel cielo, vita e luce accrescere al giorno. Ecco Zefiro col ritorno I'aria rendere più gentile. O di Pindo arpe canore salutate il nuovo aprile! Già si distruggono le nevi algenti, aI mar sen fuggono sciolti i torrenti. Porpore ardenti tinte da Venere fra I'erbe tenere vanta al sol un fior simile. O di Pindo arpe canore salutate il nuovo aprile! Torna Progne e si querela mentre fabbrica il suo nido; di Tereo l0 strazio infido Filomena a noi rivela. Quanto più fosco, più bello il bosco non paventa impeto ostile. O di Pindo arpe canore salutate il nuovo aprile! |
[recitativo] Ma non è questo il vanto d'april onde tu sei superba, 0 Roma. Oggi Fabio vestì di Piero il manto, oggi di tre corone ornò la chioma. Ecco riede quel dì, lieto e felice, per cui sperar ne lice gloria a Dio, pace a noi, pregi a la fede. Ecco che gia si vede ai rai di nuova stella placarsi ogni procella. Ecco un porto sicuro aprirsi a I'alme stabili al sacro abete, ecco le calme. [aria] Quando mai dal dio del Etra piu bel giorno al mondo usci? Piu d'ogn'altro, 0 questo sì, può segnar candida pietra. Ogni lingua e ogni cetra benedica il suo natale; oh tornar possa immortale al pastor del sacro ovile. Salutate il nuovo aprile, o di Pindo arpe canore! Esce in cielo il nuovo albore a bandir I'anno senile. |
Solo e pensoso i più deserti campi
vo misurando a passi tardi
e lenti,
e gl'occhi porto per fuggir intenti
dove vestigio human l'arena
stampi.
Altro schermo non trovo che mi scampi
dal manifesto accorger de
le genti,
perché ne gl'atti d'allegrezza spenti
di fuor si legge
com'io dentr'avampi.
Sì ch'io mi cred'homai che monti e piagge
e
fiumi e selve sappian di che tempre
sia la mia vita, ch'è celata
altrui,
ma pur sì aspre vie né sì selvagge
cercar
non so ch'Amor non venga sempre
ragionando con meco et io con
lui.
Mille volte il dì moro,
e voi, empi sospiri,
non fate,
ohimè, che in sospirando io spiri?
E tu, alma crudele, se il mio
duolo
t'affligge sì, che non ten fuggi a volo?
Ahi, che sol Morte
al mio duolo aspro e rio
divien pietosa e ancide il viver
mio!
Così dunque i sospiri e l'alma mia
son ver me spietati e
Morte pia.
Moro, lasso al mio duolo,
e chi mi può dar vita,
ahi, che
m'incide e non vuol darmi aita!
O dolorosa sorte,
chi dar vita mi
può, ahi, mi dà morte!
Distribuiti fra gli otto libri di madrigali pubblicati da Monteverdi in vita (1567-1643), lo schema elenca tutti i componimenti messi in musica dal compositore su testi di Tasso (clic sopra per ingrandirlo).
Il numero che precede l'incipit rimanda all'ordinamento che ne fece per la prima volta Angelo Solerti – Le rime di Torquato Tasso, Bologna 1898-1902: vol. I | II | III | IV – poi conservato anche nelle edizioni più recenti, come quella Einaudi, a cura di Bruno Basile (1994). I componimenti tratti dalla Gerusalemme liberata sono segnati da un asterisco.
[43] Qual musico gentil, prima che chiara
altamente la lingua al canto snodi,
all’armonia gli animi altrui prepara
con dolci ricercate in bassi modi;
così costei che, nella doglia amara,
già tutte non oblia l’arti e le frodi,
fa di sospir breve concento in prima,
per dispor l’alma in cui le voci imprima.
[44] Poi cominciò: Non aspettar ch’io preghi,
crudel, te, come amante amante deve.
Tai fummo un tempo. Or se tal esser neghi,
e di ciò la memoria anco t’è greve,
come nemico almeno ascolta: i preghi
d’un nemico talor l’altro riceve.
Ben quel ch’io chieggio è tal che darlo puoi
e integri conservar gli sdegni tuoi.
[45] Se m’odii, e in ciò diletto alcun tu senti,
non ten’ vengo a privar: godi pur d’esso.
Giusto a te pare, e siasi. Anch’io le genti
cristiane odiai (nol nego): odiai te stesso.
Nacqui pagana; usai vari argomenti
che per me fosse il vostro imperio oppresso;
te perseguii, te presi, e te lontano
dall’arme trassi in loco ignoto e strano.
[46] Aggiungi a questo ancor quel ch’a maggiore
onta tu rechi ed a maggior tuo danno:
t’ingannai, t’allettai nel nostro amore.
Empia lusinga, certo, iniquo inganno,
lasciarsi còrre il virginal suo fiore;
far delle sue bellezze altrui tiranno;
quelle ch’a mille antichi in premio sono
negate, offrire a novo amante in dono.
[47] Sia questa pur tra le mie frodi, e vaglia
sì di tante mie colpe in te il difetto,
che tu quinci ti parta, e non ti caglia
di questo albergo tuo già sì diletto.
Vattene, passa il mar, pugna, travaglia,
struggi la fede nostra: anch’io t’affretto.
Che dico nostra? Ah non piú mia! Fedele
sono a te solo, idolo mio crudele.
Giaches de Wert | in L'ottavo libro de madrigali (1586)
Nicholas Lanier | ms. in GB-Lbl (post 1625)
Sovente, allor che su gli estivi ardori giacean le pecorelle a l' ombra assise, ne la scorza de' faggi e de gli allori segnò l' amato nome in mille guise, e de' suoi strani ed infelici amori gli aspri successi in mille piante incise, e in rileggendo poi le proprie note rigò di belle lagrime le gote. |
Piange, e sospira; e quando i caldi raggi fuggon le gregge, a la dolce ombra assise, ne la scorza de' pini o pur de' faggi segnò l' amato nome in mille guise: e de la sua fortuna i gravi oltraggi, e i vari casi in dura scorza incise: e 'n rileggendo poi le proprie note spargea di pianto le vermiglie gote. |
[Gerusalemme liberata · VIII.6] | [Gerusalemme conquistata · VII.19] |
Giaches de Wert, Sovente | in L'ottavo libro de madrigali (1586)
Monteverdi, Piagn'e sospira | in Quarto libro de' madrigali (1603)
I. [Guarini]
Lui — Ardo sì, ma non t’amo,
perfida e dispietata,
da un sì leale amante
indegnamente amata.
Ah, non fia più che del mio amor ti vante
perch’ho già sano il core,
e s’ardo, ardo di sdegno e non d’amore.
II. [Tasso: Risposta]
Lei — Ardi o gela, a tua voglia,
perfido et impudico,
or amante or nemico;
ché d’incostante ingegno
poco istimo l’amor e men lo sdegno,
e se l’amor fia vano,
van sia lo sdegno del tuo cuore insano.
III. [Guarini: Controrisposta]
Lui — Arsi et alsi a mia voglia,
leal, non impudico,
amante, non nemico;
e s’al tuo lieve ingegno
poco cale l’amor e men lo sdegno,
sdegno e amor farà vano
l’altiero suon del tuo parlare insano.
Monteverdi | in Madrigali. Libro I (1587)
Banchieri | in Il Festino nella sera del giovedì grasso avanti cena (1608)
———
Su tutte le intonazioni di Ardo sì ma non t'amo è stato dedicato nel 1990 un doppio volume A-R Editions (voll. 78-81) a cura di George C. Schuetze: vol. I | II
Non si levava ancor l'alba novella,
né spiegavan le piume
gli augelli al novo lume,
ma fiammeggiava l'amorosa stella,
quando i duo vaghi e leggiadretti amanti,
ch'una felice notte aggiunse insieme
come acanto si volge in vari giri,
divise il novo raggio, e i dolci pianti
nell'accoglienze estreme
mescolavan con baci e con sospiri.
Mille ardenti pensier, mille desiri,
mille voglie non paghe,
in quelle luci vaghe,
scopria quest'alma innamorata, e quella.
E dicea l’una sospirand’allora:
«Anima, a dio!» con languide parole.
E l’altra «Vita, a dio» le rispondea,
«A dio, rimanti», e non partiansi ancora
inanzi al novo sole
e inanzi a l’alba che nel ciel sorgea,
e questa e quella impallidir vedea
le bellissime rose
ne le labr’amorose,
e gl’occhi scintillar come facella
e come d’alma che si part’e svella
fu la partenza loro.
«A dio, che part’e moro».
Dolce languir, dolce partita e fella.
Monteverdi | in II libro de madrigali (1590)
[59] – Vattene pur, crudel, con quella pace
che lasci a me; vattene, iniquo, omai.
Me tosto ignudo spirto, ombra seguace
indivisibilmente a tergo avrai.
Nova furia, co’ serpi e con la face
tanto t’agiterò quanto t’amai.
E s’è destin ch’esca del mar, che schivi
gli scogli e l’onde e che a la pugna arrivi,
[60] là tra ’l sangue e le morti egro giacente
mi pagherai le pene, empio guerriero.
Per nome Armida chiamerai sovente
ne gli ultimi singulti: udir ciò spero. –
Or qui mancò lo spirto a la dolente,
né quest’ultimo suono espresse intero;
e cadde tramortita e si diffuse
di gelato sudore, e i lumi chiuse.
[63] Poi ch’ella in sé tornò, deserto e muto
quanto mirar poté d’intorno scorse.
"Ito se n’è pur," disse "ed ha potuto
me qui lasciar de la mia vita in forse?
Né un momento indugiò, né un breve aiuto
nel caso estremo il traditor mi porse?
Ed io pur ancor l’amo, e in questo lido
invendicata ancor piango e m’assido?
Monteverdi | in Libro III de madrigali (1598)
Francesco Eredi | in L'Armida del Tasso posta in musica (1608)
[77] Vivrò fra i miei tormenti e le mie cure,
mie giuste furie, forsennato, errante;
paventarò l'ombre solinghe e scure
che'l primo error mi recheranno inante,
e del sol che scoprí le mie sventure,
a schivo ed in orrore avrò il sembiante.
Temerò me medesmo e, da me stesso
sempre fuggendo, avrò me sempre appresso.
[78] Ma dove, oh lasso me!, dove restaro
le reliquie del corpo e bello e casto?
Ciò ch'in lui sano i miei furor lasciaro,
dal furor de le fère è forse guasto.
Ahi troppo nobil preda! ahi dolce e caro
troppo e pur troppo prezioso pasto!
ahi sfortunato! in cui l'ombre e le selve
irritaron me prima e poi le belve.
[79] Io pur verrò là dove sète; e voi
meco avrò, s'anco sète, amate spoglie.
Ma s'egli avien che i vaghi membri suoi
stati sian cibo di ferine voglie,
vuo' che la bocca stessa anco me ingoi,
e 'l ventre chiuda me che lor raccoglie:
onorata per me tomba e felice,
ovunque sia, s'esser con lor mi lice.
Monteverdi | in Libro III de madrigali (1598)
[52] Tancredi, che Clorinda un uomo stima, |
Tancredi insegue un cavaliere musulmano, non sa ch'è Clorinda. Lo raggiunge e lo sfida. |
[53] Guerra e morte avrai disse io non
rifiuto |
Clorinda accetta la sfida. |
Né vuol Tancredi, ch'ebbe a piè veduto |
Tancredi scende da cavallo. |
E impugna l'una e l'altro il ferro acuto, |
Si fronteggiano armati. |
[54] Notte, che nel profondo oscuro seno |
Descrizione della notte che fa da sfondo al memorabile scontro. |
[55] Non schivar, non parar, non pur ritrarsi |
Combattimento. |
[56] L'onta irrita lo sdegno a la vendetta, |
|
[57] Tre volte il cavalier la donna stringe |
Lo scontro sembra trasformarsi in abbraccio. |
Tornano al ferro, e l'uno e l'altro il tinge |
Dopo prolungati attacchi entrambi si placano feriti. |
[58] L'un l'altro guarda, e del suo corpo esangue |
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Già de l'ultima stella il raggio langue |
Sorge l'alba: Tancredi si compiace d'essere meno ferito di Clorinda. |
[59] Misero, di che godi? oh quanto mesti |
Vanto inutile: avrà di che pentirsi. |
Così tacendo e rimirando, questi |
Tancredi vuol conoscere il nome del suo avversario. |
[60] Nostra sventura è ben che qui
s'impieghi |
|
[61] Risponde la feroce: Indarno chiedi |
Clorinda: «Non risponderò, ma son colui che ha dato fuoco alla torre» |
Arse di sdegno a quel parlar Tancredi, |
Tancredi si sdegna ulteriormente. |
[62] Torna l'ira ne' cori, e li trasporta, |
Riprende feroce lo scontro. |
[64] Ma ecco omai l'ora fatale è giunta, |
Tancredi dà il colpo mortale a Clorinda. |
[65] Segue egli la vittoria, e la trafitta |
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Ella, mentre cadea, la voce afflitta |
Clorinda a terra morente ha parole pietose: |
[66] Amico, hai vinto: io ti perdòn... perdona |
Lo perdona e chiede perdono per sé. |
In queste voci languide risuona |
Tancredi si commuove. |
[67] Poco quindi lontan nel sen del monte |
Raggiunge il fiume vicino per dar dell'acqua a Clorinda. |
Tremar sentì la man, mentre la fronte |
Levatole l'elmo la riconosce e si dispera. |
[68] Non morì già, ché sue virtuti
accolse |
Tancredi cerca invano di farla rinvenire. |
Mentre egli il suon de' sacri detti sciolse, |
Clorinda sorride: «Vado in pace». |
Monteverdi | in Madrigali guerrieri et amorosi (1638)