Carmina Burana: ricerche sulla musica
La notazione del Codex Buranus
Davide Daolmi © 2020
La notazione del Codex Buranus è della famiglia sangallese, una delle forme adiastematiche più studiate e apprezzate (è la notazione su cui Eugéne Cardine 1968 ha elaborato la sua teoria semiologica). In riferimento al Codex due elementi sono insoliti: la datazione e la collocazione geografica. Nel xiii secolo le forme adiastematiche erano state abbandonate in quasi tutti gli scriptoria. Facevano eccezione alcune sedi tedesco-orientali, in particolare in Austria e nel sud della Germania, fra cui San Gallo (Hiley 1993: 389).
Per considerare la notazione più da vicino è opportuno ricostruire la struttura del codice che, a parte sbrigativi riferimenti alla perdita di alcuni fascicoli e allo spostamento di altri, è stata descritta in dettaglio solo in Schumann 1970, ii/1 (1930): 31-39. La ricostruzione i dispone i fascicoli secondo l’attuale rilegatura (con i 7 frammenti inseriti nell’ordine definito in cb).
Dei quasi 250 brani del Codex Buranus solo una cinquantina sono notati. Altrettanti sono i brani che, sulla base di altri testimoni, siamo in grado di restituire in forma moderna: i due gruppi però non sono sovrapponibili. I brani trascrivibili (da altri manoscritti) sono infatti solo la metà dei brani notati nel Codex, e quindi i Carmina Burana trasmettono un paio di dozzine di unica musicali in forma adiastematica.
La tavola mostra le varie forme neumatiche del Codex, comprese quelle liquescenti, ritmiche e quilismatiche. Sebbene l’uso di queste forme non sia sufficientemente esteso da offrire un valore statistico, contribuisce però a indirizzare alcune ipotesi. In particolare, l’apparente dismissione di episemi [*], un tempo numerosi nelle sangallesi, potrebbe far pensare a un disinteresse per gli aspetti ritmici della notazione. Al contrario di seguito dimostrerò come tutti i neumi particolari, a partire dalle liquescenze, si siano di fatto trasformati in neumi ritmici, evidentemente partecipando delle urgenze del secolo sensibile al mensuralismo.
* Fa eccezione il canto Per curarum disthaor (f. 101v) in cb 227 che presenta alcune clivis episemate, non a caso copiate da n1 che si rivela avere un’esperienza superiore agli altri notatori.
Liquescenze
L’interpretazione della liquescenza fu proposta da André Mocquereau 1891 come articolazione vocale di dittonghi o sillabe con consonante sonora (tesi poi ripresa da Freistedt 1929 e Cardine 1968). La liquescenza così intesa è stata poi messa in relazione con la plica (Hiley 1984), che assume nella notazione modale una funzione mensurale, o più correttamente ritmica. In effetti la dicotomia fra liquescenza e plica si supera non tanto riconoscendo nel segno un significato mensurale, ma di accento evitato: se il neuma ‘appoggia’ l’ultimo suono (teoria della stacco neumatico), il neuma liquescente evita tale appoggio e induce il canto a proseguire sul neuma successivo. Gli esempi del Codex Buranus di cui discuterò chiariscono questo principio.
Nella tavola ho conservato la distinzione di Cardine (1968: 158) fra liquescenze per aumentazione e diminuzione: è una distinzione ininfluente alla prassi ma utile alla derivazione grafica. Ad esempio nel Codex il punctum liquescens (termine ambiguo, perché intercambiabile con l’epiphonus) ha la prerogativa di non esistere isolato, ma per il resto non si distingue dal cephalicus. Similmente, l’epiphonus non è un punctum con qualcosa in più, ma un pes che appoggia sul primo suono.
Epiphonus
È l’unica forma di liquescenza ascendente, perché di fatto contraddice il principio spontaneo per cui un suono acuto richiede maggior sforzo di uno grave (da cui la distinzione fra punctum e virga con enfasi su quest’ultima). Nel Codex è usato solo da n1 (cb 227) e n4 (cb 99, 147, 159). In cb 99 compare una volta sola, isolato su sillaba, mentre la struttura strofica di cb 159 permette di confermare la sostituibilità fra epiphonus e pes. Il caso più interessante è però il cb 147 (Si de more cum honore), una canzone latina con l’ultima strofa in altotedesco.
Benché cb 147 non goda di testimoni diastematici, i neumi permettono di riconoscere la strofa in Barform (ααβ) dove l’epiphonus assume forma segnaletica, scandendo gli attacchi delle frasi principali (Fig. 1). Apparentemente la strofa latina (10 versi in prevalenza quadrisillabi) non sembra sovrapponibile a quella tedesca (6 versi di 8-10 sillabe, prima strofa di una canzone di Reinmar der Alte), contrariamente al principio seguito negli altri brani dei fascicoli xii-xiii (dove il testo latino è sempre un contrafactum della melodia tedesca).
iii. Cutis aret, | quia caret | leto pectore;
curans curo; | de futuro | timens tempore
nequeo cum talibus | accubare | vel durare | sub rivalibus.
iv. Sage, daz ih dirs iemmer lone: | hast du den uil lieben man gesehen?
ist iz war, lebet er so schone, | als si sagent vnde ih dih hore iehen?
«vrowe, ih sah in: er ist vro; | sin herçe stat, ob ir gebietet, iemmer ho.»
Tuttavia il modo con cui il latino fa propria la melodia qui è meno scontato, e forse per questa ragione n4, invece di notare la prima strofa (latina) e l’ultima (tedesca), aggiunge la notazione alle ultime due strofe (iii-iv), agevolando il riconoscimento delle differenze fra la versione originale e il suo contrafactum (nella figura il latino derivato è su fondo grigio).
Una ricomposizione dei versi nei tre archi melodici (ααβ) rivela come sia possibile far corrispondere il quadrisillabo sdrucciolo “Leto pectore” al decasillabo “Hast du den vil lieben man gesehen”. In effetti il latino conserva solo i neumi su sillaba tonica, quelli cioè più facilmente memorizzabili (ho discusso questo principio in Daolmi 2019/a: 163 ss). L’epiphonus, posto sempre a inizio di frase è preferito al pes (usato nel relativo tedesco) forse in ragione del ruolo d’appoggio della prima nota che permette un attacco più netto. Significativo inoltre il doppio ingresso di β in tedesco il cui uso dell’epiphonus mostra come il latino trascuri le prime due sillabe vocative (“Vrowe”) dell’ottonario tedesco per meglio far corrispondere gli accenti del suo quinario sdrucciolo (“Nequeo cum…”).
La mano n1, più precisa, usa estensivamente l’epiphonus, sia isolato (per es. f. 99r riga 5), sia a conclusione di neumi discendenti: sia clivis (f. 101r riga 15), torculus (f. 100r riga 11) o climacus di vari tipi. In un unico caso l’epiphonus è unito al punctum (f. 100 riga 3), ma si tratta chiaramente di un accorpamento per accentare correttamente virgo e camelum, la cui tonica cade sfasata, senza alterare la frase musicale:
Cephalicus
È la liquescenza più diffusa, l’unica usata indifferentemente da tutte e quattro le mani. Non presenta casi problematici.
Pinnosa
Usata raramente, e solo da n4 (cb 98, 109, 215). Quest’ultimo è l’unico caso confrontabile con una forma diastematica (dal Graduale triplex, p. 619), poiché contrafactum dell’ufficio:
La pinnosa su “gaudent” (primo arco melodico) sembrerebbe usata in ragione del dittongo (anche in cb 16* si usa una pinnosa su “gaudium”, f. 107v). Tuttavia è liquescente anche il neuma sulla tonica di “nuditate”, dove non sarebbe necessario, mentre manca al corrispettivo “collaudant” (secondo arco), dove invece c’è il dittongo.
L’ipotesi che ormai in quest’epoca la liquescenza sangallese valga più come suono debole (una plica a tutti gli effetti) piuttosto che in relazione a dittonghi o a consonanti sonore lo mostra anche cb 109, brano di tre strofe irregolari (con refrain) chiuse dallo stesso verso (“cedit in contrarium”), dove l’ultima sillaba di “contrarium”, quindi l’ultima sillaba della strofa, è sempre intonata da una pinnosa. Ancora Cardine, benché sulla base di testimoni più antichi, escludeva che un neuma liquescente potesse trovarsi «su sillaba finale» (1968: 159) perché lo intendeva solo come legame al suono successivo, trascurandone la funzione ritmica.
Ancus
Il climacus liquescente è moderatamente frequente nel Codex e uno dei segni più utili a discriminare le varie grafie. Tracciato con molta incertezza da n2-3-4, al punto da essere spesso di difficile interpretazione, è al contrario ben disegnato da n1 che adotta l’ancus a chiusa di vari climacus fino a 6 suoni (e relative forme quilismatiche):
I sette casi riportati nell’esempio sono (solo prima occorrenza) al f. 100v riga 21 (3 suoni), f. 101r riga 10 (4 suoni), f. 100r riga 10 (5 suoni), f. 99v riga 10 (6 suoni); le forme quilismatiche sono: f. 99r riga 5 (4 suoni), f. 99r riga 6 (5 suoni), f. 100v riga 22 (6 suoni). Il primo tipo quilismatico dell’esempio non compare in cb 227 (n1), ma è usato da n4 in più occasioni (si veda l’esempio riportato sopra della pinnosa).
L’uso del punctum liquescens nega lo spontaneo appoggio sull’ultimo suono del neuma spostandolo di fatto sul primo, non sul precedente. Il punctum liquescens non accenta cioè il suo primo suono e infatti non esiste da solo (sarebbe altrimenti un cephalicus). È pertanto da escludere la distinzione che segue, esclusivamente grafica (e comunque non praticata):
Dal momento che ogni neuma si carica di un unico ictus (oltre a quello eventualmente introdotto dall’attacco di sillaba), la possibilità di un accento interno al neuma non è infatti dei neumi liquescenti, ma di quelli ritmici.
Neumi ritmici
Oriscus
In quanto suono d’appoggio, nel Codex non si trova mai da solo. Esattamente come il punctum liquescens è spesso posto a conclusione di neumi discendenti. Anche in questo caso è tracciato accuratamente da n1 nella tradizionale forma ‘a esse’, mentre n2 e n4 lo trasformano in uncino (n3 non lo usa):
a) n1: cb 227, f. 99v — b) n2: cb 30, f. 4r — c) n4: cb 99, f. 74r
Oltre a rimarcare l’ultimo suono, l’oriscus dopo neuma discendente identifica sempre un suono più acuto, almeno nel Codex Buranus. Benché non vi siano paralleli diastematici per una verifica, è segnato più alto del suono che lo precede. Inoltre in cb 227, il quilisma torculus che chiude ogni frase di “Questionum noverat” è indifferentemente reso come oriscus o resupinus in alcune ripetizione di strofa (cfr oltre l'esempio da In eventu prospero). In tale circostanza non può essere sostituito dalla virga perché è un prolungamento ascendente del neuma e quindi è parte integrante del neuma cui si lega e unico suono d’appoggio conclusivo.
Un caso particolare di oriscus unito al quilisma è proposto solo da n1: ne parlerò nel capitolo dedicato ai quilismi.
Distropha e Bivirga
Si tratta di segni di allungamento, in nessun caso di ripercussione, almeno nel Codex. L’evidenza è offerta dall’interscambiabilità di questi neumi con la semplice virga o punctum in passi corrispondenti (cfr per esempio cb 15). Per questa stessa ragione il Codex non usa mai tristrophae o trivirgae che sarebbero solo una variante grafica del corrispettivo binario. È un ulteriore segnale che all’epoca in cui si stavano sviluppando le prime teorie mensurali, le forme meno comuni dei neumi perdevano il valore ornamentativo per conservare quasi esclusivamente informazioni ritmiche. Distropha e bivirga allungano rispettivamente il punctum (al grave) e la virga (all’acuto), ma sono spesso confusi fra loro con un segno intermedio (tendenzialmente più vicino alla distropha).
Virga strata
Usata occasionalmente (tranne da n4), deriva dall’unione di virga e oriscus, pertanto allunga il secondo suono che si vuole all’unisono. Tuttavia, almeno n1, sembra preferire un movimento d’ascesa (peraltro testimoniato in altri contesti (Cardine 1968: 104) con un tratto (diversamente da n2 e n3) spiccatamente direzionato verso l’acuto:
a) n1: cb 227, f. 100r — b) n2: cb 30, f. 4r — c) n3: cb 79, f. 34r
Nel caso che segue (n1) il confronto di due passi con stessa o simile melodia, mostra come la virga strata appaia un’alternativa al quilisma (f. 101r), cioè a un neuma ascendente.
Il motivo per cui n1 usi la virga strata al posto del pes che già prevede un appoggio sul secondo suono (stacco neumatico), si lega probabilmente alla posizione in attacco di sillaba che rende il primo suono del neuma spontaneamente d’appoggio indebolendo il successivo. In effetti l’uso abbastanza esteso di neumi ritmici nel Codex si giustifica per molti aspetti in ragione di una scrittura sillabica o neumatica, che altera la ritmica normale delle forme melismatiche.
Invece n2 e n3 sembra usino la virga strata preferibilmente come appoggio o allungamento. Particolarmente istruttivo è cb 79 (Estivali sub fervore) di cui n3 annota tre strofe. Le occasionali variazioni neumatiche che si riscontrano di strofa in strofa mostrano che il neuma ritmico difficilmente potrebbe essere interpretato in forma ascendente.
Nell’esempio si riproducono solo gli ultimi tre versi delle strofe i-iii, le uniche neumate, con in evidenza le varianti:
I primi tre versi di ogni strofa adottano la stessa melodia del verso 4 (nell’esempio indicata con α). La strofa di sei versi sarebbe quindi intonata ααααβ (con β che si estende per due versi). Tali forme semi-litaniche sono tipiche delle forme più arcaiche di canzone.
Pressus
Usato esclusivamente da n1 e n4, il pressus è sostanzialmente un oriscus flexus e si distingue dal cephalicus per l’allungamento del primo suono d’appoggio (non a caso la notazione quadrata lo legge in genere come strophicus flexus). Entrambi i notatori lo usano in quattro forme: semplice, pes pressus, preceduto da clivis o torculus:
Il pressus s'incontra in: 99r, 99v, 101r-v (n1), cb 108 (n4); pes pressus: 99r, 100v (n1), cb 108 (n4); clivis + pressus: mai da n1, cb 98 (n4); torculus + pressus: 99r-v (n1), cb 131a (n4). Il pressus si riesce a unire facilmente a un altro neuma proprio perché attira su di sé l’accento evitando l’equivoco di due ictus, uno per neuma.
Simile alla virga strata, quindi con suono d’appoggio prolungato, il pressus è sempre seguito da un suono più grave. Per la sua naturale fisionomia è usato quasi esclusivamente in fine sillaba, parola o frase. L’unico caso individuato di pressus all’interno di melisma – dove evidentemente segna una fermata – è nella citazione dell’incipit del responsorio Aspiciebam in visu (prima domenica d’Avvento) inserito nel dramma natalizio del Codex (cb 227, f. 99r), qui confrontato con due fra le versioni diastematiche più simili:
Per un elenco dei testimoni si veda la versione on line di Cantus index (cao 006128). I due esempi qui selezionati sono tratti da manoscritti di area tedesca: Graz, Universitätsbibliothek, 29, f. 3r. (xiii secolo), e Wien, Österreichische Nationalbibl., 1799**, f. 1v (xiv sec.). Non molto diversa la lezione in area francese, ma già le forme veteroromane si rivelano assai più fiorite: cfr per esempio Roma, Biblioteca Vaticana, San Pietro B.79, f. 5r (xii sec.).
Il pes pressus appare particolarmente interessante in Vacillantis trutine (cb 108). Il brano è una sequenza di tre doppie strofe e refrain trasmessa anche in forma diastematica (ma con una melodia decisamente meno fiorita).
Restituzione sinottica della doppia seconda strofa di cb 108 (il pes pressus è indicato dalla freccia). La versione diastematica è tratta da Cambridge, University Library, Ff.i.17, f. 1r-v (ca 1200). L’edizione qui proposta corregge alcune marginali imprecisioni in Lammers 2020: 263.
I quadrisillabi sdruccioli “Delicias” e “Que facies” (dov’è il pes stratus) sono all’interno di un modulo melodico che si ripete in progressione (identificato nell’esempio da un arco), prima due volte e poi ben sei. Il modulo è costituito da un movimento per grado ascendente cui segue una discesa di quarta. Il pes stratus s’inserisce come fioritura e in “Que facies” sembra potersi far corrispondere alla forma diastematica:
Nella forma diastematica il cambio di sillaba introduce un accento che il Codex Buranus conserva nel melisma.
Trigon
È usato solo da n4 in cb 128 come variante ritmica del torculus, ovvero con appoggio sulla nota centrale. Lo si individua in un lungo melisma, all’interno di un inciso che si ripete due volte (nell’esempio identificato da un doppio arco) prima con torculus e poi con trigon:
Quest’interpretazione del trigon, a volte adottata dall’Editio Vaticana, è esclusa da Cardine (1968: 77). In realtà l’utilizzo che ne fa n4 è coerente all’abbandono di forme ribattute e la necessità di neumi con appoggi interni e non solo conclusivi.
Salicus
È presente in due soli brani, cb 159 (n4) e cb 227 (n1). Entrambi sono confrontabili con notazioni diastematiche, ma solo il secondo è reso da tre note ascendenti [*]. Il salicus di cb 159 – brano in Barform (ααβ) con il refrain che riprende β – compare alla fine di 3 delle 4 strofe (sezione β), e conseguentemente anche nel refrain. Nella prima strofa manca perché è sostituito da un quilisma il cui suono intermedio prende il posto dell’oriscus del salicus: un’intercambiabilità che obbliga a una messa a fuoco del quilisma.
* cb 159 (= cb 85) gode di notazione diastematica nell’unica altra stesura nota in El Escorial, Bibl. del Monestir, z.ii.2, ultimo foglio. Il dramma natalizio cb 227 inserisce la sequenza liturgica Laetabundus (cao 508017) distribuita dialogicamente fra Agostino e i Profeti (f. 101r).
Quilismi
Il quilisma si presenta nella classica forma sangallese di pes uncinato alla base, semplice o con più uncini:
L’esecuzione del suono intermedio è incerta, probabilmente vibrata o tremolata. Cardine (1968: 149), sulla scorta di Mocquereau, lo definisce semplicemente «nota … leggera» perché giustamente riconosce l’appoggio solo all’acuto, ma tace della componente ornamentativa del segno, poco amata dai gregorianisti, benché già rivendicata con buoni argomenti da Apel 1958 [1998]: 153.
Malgrado Wiesli 1966 attribuisca al numero degli uncini una differenza melodica (pur con molte incertezze), il Codex esclude quest’ipotesi, utilizzando contemporaneamente forme con due o tre uncini in passi paralleli di melodie identiche (si veda oltre un esempio). Semmai resta aperta l’ipotesi che il numero di uncini possa determinare la durata dell’ornamentazione.
In ogni caso il primo uncino spesso corrisponde alla nota d’appoggio che precede il suono quilismatico, pertanto la variazione degli uncini può essere dovuta al punctum o ad altro neuma cui il quilisma si appoggia. In particolare n1 traccia quasi sempre un punctum prima del quilisma di due o tre uncini, con l’ultimo chiuso dal gambo ascendente:
a) f. 99r riga 16 — b) f. 101r riga 14
Al contrario n2 e n4 (n3 non usa quilismi) non segnano mai il punctum d’inizio e tracciano gli uncini sempre aperti (due o tre, in un unico caso quattro: f. 80r riga 15, n4). L’indeterminatezza degli uncini comunque rimane, come mostra il canto “In eventu prospero” in cb 227 (Un altro caso era stato presentato sopra parlando della virga strata):
[1.] “In eventu prospero” (due strofe) e [2.] “Questionum noverat” (due strofe più l’inizio della terza), con le varianti su fondino e il diverso numero di uncini del quilisma nel numero cerchiato.
Le due strofe in Barform (ααβ), a parte occasionali differenze evidenziate dal fondino, mostrano una sostanziale identità dei lunghi melismi finali di ogni frase, ma con quilismi a due e tre uncini (come da numero cerchiato) che evidentemente non possono prevedere alternanze tono/semitono.
È interessante osservare come questo canto, quello con più quilismi di tutto il dramma natalizio (quasi una decina per strofa) e assai lunghi vocalizzi, sia introdotto dalla didascalia «cum voce sobria et discreta». Il brano è cantato da Agostino in risposta alle provocazioni dell’Arcisinagogo, quasi personificazione del demonio che, al contrario, non ha vocalizzi né quilismi. S’intuisce che il quilisma sia un ornamento che caratterizza un cantare elegante e raffinato, espressione della ragionevolezza ‘cristiana’.
Questa stessa melodia ricompare in cb 227 anche per il canto “Questionum noverat” (del terzo Re Magio) dove però la prima parte del lungo melisma presenta l’aggiunta di un oriscus nella congiunzione fra climacus e quilisma:
Non conosco letteratura relativa a un simile combinazione neumatica ma credo che l’intenzione fosse semplicemente quella d’inserire un’ulteriore nota d’appoggio:
L’uso della forma orizzontale dell’oriscus (la stessa del salicus) forse si spiega proprio per evitare la fermata che indurrebbe la forma comune.
Questa disamina ravvicinata sulla notazione del Codex Buranus, se anche non restituisce nuova musica (pur rivelando il tipo di forma strofica adottata), mostra quanto prezioso sia il contributo che offre il riconoscimento delle mani dei notatori e in generale delle prerogative sangallesi, sia in riferimento al ruolo dei neumi ritmici, gli unici che offrono qualche indizio circa i mutamenti della prassi, sia attraverso un’interazione più stringente con i paralleli diastematici.